Nuovi
Municipi
Newsletter settimanale della Rete
del Nuovo Municipio
n. 180, 11 Giugno 2010
BUON LAVORO; PER TUTTI E PER TUTTE
Non è per amara ironia che, proprio nel giorno che per moltissimi segna la fine della scuola e l'inizio delle vacanze, vi rivolgiamo l'augurio programmatico riportato nel titolo: la scelta del tema è dettata unicamente dall'imminenza di un appuntamento molto importante per il Nuovo Municipio, il primo incontro del "Gruppo consultivo ad hoc" su "Creare lavoro di qualità mediante il legame sociale" a cui il Consiglio d'Europa ha voluto invitarci a contribuire - e i cui dettagli trovate più sotto. Al di là del rilievo del riconoscimento, esso dimostra che non sono soltanto i lettori di questo foglio a recepire la riflessione e le pratiche che prendono vita dentro e intorno al Nuovo Municipio; e testimonia della fecondità di una linea di pensiero (e di prassi) da noi inaugurata già da tempo, quella tendente a re-includere il lavoro fra i "beni comuni" sulla cui accessibilità, durevolezza e riproducibilità vertono molti dei confronti nodali della nostra epoca: l'articolo riportato in calce, redatto per l'incontro inaugurale del network "Lavoro in movimento", provava già a Gennaio a riassumere i fondamenti di questa linea di pensiero, mentre speriamo che gli esiti del lavoro di Strasburgo la promuovano e la diffondano nella pratica. A noi non resta che augurarci che quello che comincia oggi non sia solo un periodo di riposo e di disimpegno, per meritati che siano, ma anche - anzi soprattutto - una stagione di lavoro buono.
Fino a domani nel Senese
il Footprint Forum 2010
Per anni pensato soltanto come immagine
suggestiva, l'indice dell'impronta ecologica può ora (e deve) trasformarsi in
uno strumento di analisi tanto potente da favorire la brusca sterzata nelle
politiche economiche sociali e ambientali che la crisi ha reso quanto mai
urgente. Sei giorni di incontri, dibattiti e seminari ad altissimo livello la
disegnano come strada perfettamente praticabile.
Chiudono oggi le settimane del
consumo consapevole a San Salvatore Telesino
Mentre Governi e
organizzazioni internazionali studiano accanitamente come riattivare una
spirale dei consumi che soltanto loro considerano "virtuosa", in un
piccolo ma combattivo Comune del Beneventano ci si interroga,
con piglio neomunicipalista, su come trasformare il consumo da pratica di
distruzione globale in momento qualificante nella (ri)nascita della
sostenibilità locale.
In corso a Getafe il Secondo Forum mondiale delle
Autorità Locali delle Periferie
Una strana sorte accomuna le parole
"periferico" e "locale": per decenni usate come semplici
limitativi del peso dei sostantivi che accompagnavano, ora se ne riscopre
l'anima positiva, che allude ad alternative di sistema - obiettivo del grande appuntamento madrileno - pronte a proliferare sulla
scala globale a partire proprio dalla loro subalternità; nella speranza che non
sia già troppo tardi.
Martedì e Mercoledì a Strasburgo "Creare lavoro di qualità
mediante il legame sociale"
Le conseguenze di lunga durata della
crisi mostrano che è vano aspettarsi soluzioni plausibili da parte dei
(presunti) meccanismi omeostatici del mercato: meglio rivolgersi a legami
sociali che si sviluppano autonomamente e spesso in opposizione alle loro
"leggi". Il Consiglio d'Europa chiama il Nuovo Municipio a dire la
sua in un Gruppo Consultivo.
Dal 7 all'11 Luglio valutazione e
partecipazione come cultura a Sovicille
Se valutare è cosa che facciamo ogni
giorno, è raro che questo sottostia a regole certe, e anche che investa
politiche e azioni che, per fortuna o per sfortuna, sfuggono ai parametri
"classici" del profitto: vicino Siena una scuola estiva
a cavallo «tra partecipazione, impatto sociale a valore sociale aggiunto»
rilancia la valutazione come metodo scientifico - e come atteggiamento
politico.
Il Nuovo Municipio "ci mette la faccia"
Il web 2.0 non serve solo per far
chiacchiere o curiosare nelle case altrui, ma anche a dare visibilità e
capacità di interazione creativa a gruppi ed eventi che, senza di esso,
resterebbero confinati nelle nicchie anguste e sterilizzanti dell'incontro
casuale. Esattamente un anno fa, anche la Rete si è dotata di questo strumento:
venite a trovarci su FaceBook, c'è da sentirne (e da dirne) delle
belle.
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Lavoro
in movimento
di Angelo M.
Cirasino[1] -
Gennaio 2010
Il lavoro come
bene comune
Si
fa strada, fra gli analisti e gli attivisti, un'idea del lavoro che tende a
concepirlo come uno degli elementi strategici da difendere e valorizzare nei
confronti della marea, tuttora montante, della globalizzazione finanziaria:
dalla concezione fordista del lavoro come opportunità, e da quella
post-keynesiana del lavoro come diritto, si passa così, oggi, ad una
rappresentazione del lavoro come bene
comune, come fattore di disturbo dell'apparato finalistico
"sviluppista" e, allo stesso tempo, di ricomposizione di unità
eccentriche, fortemente e attivamente critiche rispetto alle dinamiche da esso
innescate. Eppure, è un dato di fatto come il lavoro sia rimasto, finora,
sostanzialmente tagliato fuori dalle vertenze locali/globali per la
riappropriazione dei beni comuni, marcando un ritardo di elaborazione teorica e
organizzazione pratica che lo pone al di fuori dei flussi e degli antagonismi
dominanti. Questo è forse dipeso da due caratteristiche intrinseche del lavoro:
primo, la sua natura immateriale, potenziale, che ne ostacola la percezione
come res extensa, oggetto di
possibili rivendicazioni di proprietà e di riscatto rispetto al suo uso mercificato;
secondo, il fatto che la sua soggezione, rispetto allo sfruttamento come pura
merce, appare non una caratteristica
accidentale (come accade p.es. per l'acqua) ma strutturale, connessa alla
natura stessa del lavoro entro una dialettica capitalistica che - per volontà o
per caso - si assume in ogni caso come permanente.
Sarebbe
illusorio attestarsi su una concezione ottocentesca del lavoro (sostanzialmente
quella uscita dai libri della tradizione marxista), senza riconoscere le
profonde alterazioni indotte in quel quadro dal sorgere della globalizzazione.
Essa paradossalmente, spostando i termini del conflitto dal contesto
microeconomico a quello macroeconomico, ha determinato da un lato una rottura
diffusa delle forme di solidarietà globale interne a lavoro e capitale, obbligando
entrambi gli estremi della dialettica a soggiacere agli stessi imperativi
impersonali dettati dal luogo in cui le rispettive attività vanno a confluire,
vale a dire il mercato unico; dall'altro, a esito di queste cesure multiple, ha
generato un assetto globale basato non più sulla contrapposizione frontale dei
due principi, ma sull'interazione disorganica e frammentaria dei loro prodotti,
una serie di micro-società tendenzialmente isolate che sono conflittuali su
base sociale ma solidali su base geografica. Il risultato (ben noto a tutti) è
che il lavoro, oggi, è lo stesso ovunque solo in quanto sfruttamento; ossia che
quello di cui consta l'unità dei lavoratori è unicamente la loro posizione di
subalternità - subalternità modulata localmente in quantità e qualità per
tenere vive le relazioni di dominio macroeconomico che contano e, contemporaneamente,
azzerare quelle solidarietà microeconomiche che potrebbero riportare alle sue
costituenti fondamentali l'orizzonte del conflitto.
Una
unità come sottoprodotto dello sfruttamento, dunque, in un mondo in cui la
forma che lo sfruttamento ha assunto è proprio quella della delocalizzazione. Il lavoro frammentato,
spezzato, privato della sua natura di
principio e di bene comune, infatti, non per questo è più vicino o collegato al
luogo ove si esercita: anzi, a partire dalle dinamiche di dumping salariale, esso è assoggettato a leggi sovraordinate (di
natura essenzialmente finanziaria quando non di matematica attuariale, cfr.
FIAT e ALCOA) che ne decidono la sorte in totale indipendenza dai luoghi, come
se questi fossero puri supporti indifferenziati dove accidentalmente vanno a
cadere (o, più spesso, volano via) impianti e uffici. Un lavoro che non può
aspirare all'unità se non come oggetto di sfruttamento, non può aspirare alla
territorialità se non come effetto marginale e deteriore di quello
sfruttamento. È più che evidente che un possibile riscatto, dalla pervasività
di questa logica omologante di subalternità, non può che passare attraverso un
doppio movimento: la rilocalizzazione
del lavoro, la sua ri-territorializzazione,
ma collocata entro un quadro di relazioni orizzontali fra lavoratori che evolve
verso un'unità non più subita ma conseguita come obiettivo comune. E il tutto,
naturalmente, riposa sull'assunzione e sull'applicazione di un principio fondamentale
di autonomia del lavoro.
Lavoro
autoprodotto, autodifeso, autoorganizzato
Quello
che ha finora tenuto il lavoro fuori della vertenza globale di rivendicazione
dei beni comuni è - lo abbiamo in parte già visto - proprio la sua natura
generica, fungibile, puramente quantitativa: l'equazione lavoro = tempo di
lavoro, benché chiaramente storica e contingente, nel sistema capitalistico
rende il lavoro di fatto indisponibile per riflessioni e azioni di merito, che
tengano conto della specificità degli oggetti, delle modalità e delle finalità
che lo orientano, come pure del modo in cui esso interagisce con la totalità
delle istanze delle società locali in seno a cui si realizza. Un lavoro
riterritorializzato, nuovamente radicato in quei luoghi e in quelle
specificità, esce dunque immediatamente da questa logica: in primo luogo perché
risponde a principi di organizzazione, difesa e produzione che sono
strutturalmente altri rispetto a
quelli del mercato globale, riaffermando un principio di autonomia che lo
sgancia dai bisogni estemporanei del capitale finanziario per riagganciarlo
stabilmente a quelli di lungo periodo delle società locali; in secondo perché
questo lavoro riqualificato, riportato "con i piedi per terra" come
avrebbe detto Federico Engels, può chiaramente ambire a riacquistare la
dimensione della qualità - qualità
del lavoro e qualità come risultato del lavoro, qualità sociale, economica,
ecologica, culturale e locale.
Cosa
produrre? Perché? Come? Dove? Quando? Tutti questi sono interrogativi che
possono essere posti solo all'interno di un movimento di riscatto del lavoro in
cui i suoi oggetti, i suoi contenuti,
avendo riconquistato la posizione di primarietà che strutturalmente compete
loro, possano essere riorientati in funzione di imperativi socialmente comuni e
indipendenti da logiche esteriori e sovraordinate. Ma è evidente che, in tal
caso, quei contenuti dovranno orbitare attorno alla produzione di beni e servizi di utilità pubblica che, in quanto
percepiti come tali dalla società locale, rinviino ad opzioni condivise e
programmatiche di sviluppo locale. È solo attraverso questa declinazione locale,
qualitativa del lavoro che esso può affrancarsi dalla logica di sfruttamento
globale (tanto del lavoro stesso, quanto dei patrimoni comuni alle società
locali, alla specie umana ed alle generazioni future) che lo ha posto al
margine della dialettica altermondialista; ed è solo a patto di questa sua riappropriazione (sia nel senso di
rivendicazione di proprietà comune, sia in quello di riduzione del confronto ai
suoi temi e contenuti appropriati) che la vertenza per il lavoro può saldarsi a
quelle locali e globali per la tutela e la valorizzazione dei beni comuni - che
rappresenta oggi, lo dico per i non allergici alla parola, il nuovo orizzonte
del comunismo.
Un
lavoro così ripensato e ristrutturato può indubbiamente proporsi come elemento
trainante, invece che (come è stato finora) come relitto a traino, del movimento che, attraverso la rifondazione
delle autonomie locali ed il loro collegamento operativo in rete, punta ad un
nuovo rinascimento delle relazioni politiche e sociali come "politica dei
beni in comune per il bene comune"; può superare tutte le contrapposizioni
fittizie che, dall'ACNA di Cengio fino alla Laika di San Casciano, lo hanno
visto in tante occasioni fare il gioco del mercato, affermando opzioni miopi di
"salvaguardia" dell'occupazione e assumendo posizioni forzate che
rischiavano di allontanarlo per sempre dalla fiducia delle comunità; può
annullare il divario che tuttora lo separa dalle priorità dell'"altro
mondo possibile", recuperando il gap
culturale e sociale che lo ha tenuto finora lontano da esso. Ma a chi
rivolgersi, come interlocutore, per far sì che questa non sia semplicemente una
bella ma inconsistente fantasia?
Il ruolo
dell'Ente locale
Fino
a questo momento, gli Enti locali hanno per lo più funzionato, al massimo, come
blandi moderatori locali di vertenze il cui campo, i cui contenuti e le cui
opzioni venivano sistematicamente decisi altrove, nelle sale ottusamente impersonali
degli uffici finanziari quando non lungo i canali telematici (e del tutto
virtuali) delle contrattazioni di borsa. E agendo in questo modo hanno affermato,
implicitamente, la solidità di una posizione di subalternità del locale - e del
governo locale - che fa esattamente il paio con quella del lavoro, dal momento
che dipende dalle stesse ragioni strutturali (l'internazionalizzazione del
capitale finanziario e tutti i suoi esiti) e si snoda lungo le medesime linee
evolutive: frammentazione del fronte, unitarietà soltanto nella sottomissione
(che assume la forma vuoi di acquiescenza, vuoi di resistenza, il risultato non
cambia), delocalizzazione, impotenza. L'Ente locale partecipato, il Nuovo Municipio, invece, intende oggi
porsi come interlocutore d'elezione per questa doppia manovra di liberazione e
di reintegrazione del lavoro entro l'orizzonte dei beni comuni. Come?
Semplicemente determinando, attraverso azioni mirate di incentivazione, promozione,
protezione, costruzione e supporto, un'evoluzione sostanziale del Lavoro
Socialmente Utile che sia in grado di farlo uscire dalle nicchie
extraeconomiche dell'improduttività per approdare ad un orizzonte in cui esso
(e con esso i suoi prodotti, le sue modalità e le sue finalità generali) rappresenti
il nuovo principio ordinatore della conversione in senso autosostenibile del
lavoro e dei suoi luoghi.
Non
mancano, qui ed ora, gli esempi virtuosi in tal senso: dalle cooperative
sociali che, sponsorizzate dai Comuni, producono beni di altissimo valore
ambientale in grado di ridurre drasticamente la dipendenza da flussi -
economici, tecnologici, di approvvigionamento e distributivi - sovraordinati come
quello dei combustibili fossili e del cemento (EdiLana);
alle Banche del Tempo che, nel quadro di
collaborazioni consolidate con gli Enti locali di riferimento, affermano
direttamente l'indipendenza del lavoro rispetto agli imperativi di produttività
finanziaria che lo hanno ammorbato per decenni, e fanno sorgere scambi non
monetari di beni e servizi il cui valore di scambio coincide con il valore
d'uso; ai lavori di pubblica utilità nei "Comuni Virtuosi", finanziati
interamente dalla comunità tramite il Municipio, e che rispondono
immediatamente ad istanze condivise di riconversione ecologica e solidale delle
scelte locali dello sviluppo (dalla commercializzazione “a Km.0” dei prodotti
agricoli e artigianali, alla raccolta porta-a-porta dei RSU, alla sostituzione
delle lampade a incandescenza con LED a basso consumo in tutti i luoghi
pubblici incluso il cimitero). Quello che a tutti questi esempi manca, per
poter uscire dalla virtuosa episodicità costruendo un orizzonte di riferimento
coerente per la trasformazione, è solo una forma di connessione in rete; e
questa, a sua volta, può essere costruita solo facendo appello al fatto che
ciascuno di essi, nella sua irripetibile peculiarità, è una forma di lavoro
sottratto alla logica dello sfruttamento (dell’uomo sull’uomo e dell’uomo
sull’ambiente) e restituito a quella della utilità pubblica.
La
sfida, insomma, sta nel superare il concetto privativo del locale come
non-globale, dimensione secondaria, localizzata, sede unicamente di confini e
confinamenti, per abbracciare quello del locale
in rete come principio di potere strutturalmente alternativo a quello della
globalizzazione, fondato non più sulla competizione (che distrugge valore) ma
sulla co-operazione (che lo
moltiplica), e che richiede immediatamente un capovolgimento orientato dal
basso delle dinamiche di produzione delle decisioni; e, parallelamente, nel
superare il concetto e la pratica del lavoro come subalternità essenziale, per
ritornare a vederlo come liberazione, attualizzazione, realizzazione di una
energia comune puntata verso la trasformazione. Ma il primo, di questi
movimenti coordinati, sembra non dissimile dal programma che è scritto nel
codice genetico della Rete del Nuovo Municipio; ed il secondo se non altro
assomiglia moltissimo a quello che, un tempo, si chiamava “coscienza sindacale”.