Nuove economie:
Cittadini ed amministratori per un'economia fondata sui beni comuni
di Ugo Biggeri, Andrea Calori

La situazione di diseguaglianze nel mondo (tra e infra paesi) e i limiti naturali di uno sviluppo basato sulla crescita dei consumi e più in generale sulla falsa convinzione che le relazioni economiche possano essere separate da quelle sociali, spingono i cittadini, la società civile, gli amministratori a cercare nuove forme di economia, riscoprendo modalità di produzione e consumo che si credevano superate e inventandone di nuove.
Si tratta di un fenomeno importante, che sta portando un fermento nuovo nelle nostre società e ci spinge a dire e mostrare che un'altra economia non solo è possibile, ma è in costruzione.
La caratteristica di tali nuove economie - e il plurale è d’obbligo, vista la diversità e la molteplicità delle forme che assumono - è quella di agire all'interno del sistema di relazioni di mercato, non potendo sottrarsene, ma con l’attenzione alla creazione di un "valore aggiunto" extra-economico, sociale, ambientale, relazionale. In pratica pongono una fondamentale domanda di senso all'agire economico, indagandone gli effetti e valutandone il risultato rispetto a un globale calcolo rigenerazione o impoverimento del pianeta e dell'umanità.
La domanda che le nuove economie si pongono non è il "quanto", ma il "come": non quanto è possibile massimizzare il profitto economico, ma come avere un’economia efficiente garantendo un futuro alla Terra.
Un'economia, sia pubblica che privata, in cui si riconosca finalmente il fondamentale contributo dei beni comuni determinati dagli ecosistemi, dalle risorse naturali, dalle reti sociali e relazionali delle comunità, che sono la base irrinunciabile per qualsiasi attività umana. Beni del cui mantenimento e rigenerazione tutti devono decisamente farsi carico, se vogliamo dare un futuro al pianeta: anche le imprese che da questi dipendono per la capacità di realizzare profitti sul lungo periodo.
Per questo riteniamo importante iniziare un ragionamento sui beni comuni come possibile base di partenza per costruire un'altra economia.

I beni comuni
Il premio Nobel Paul Samuelson ha introdotto a metà del Novecento la definizione vigente dei beni comuni caratterizzati da non-rivalità e non-esclusività.
La non rivalità implica che l'utilizzo del bene da parte di una persona non diminuisca le possibilità d'utilizzo da parte di un'altra persona: le risorse naturali sono un chiaro esempio di bene comune che riguarda anche le generazioni future.
La non esclusività comporta che nessuna persona e nessuna comunità può essere esclusa dall'utilizzo dei beni comuni: ossia l'accessibilità ad un bene comune deve essere garantita.
Per definizione i beni comuni prescindono dalla gestione pubblica o privata degli stessi, ma implicano sistemi di regolazione che ne favoriscano il mantenimento e la loro rigenerazione. In passato il concetto era molto diffuso e gli esempi più semplici (in Italia) riguardano ad esempio il sistema di gestione delle foreste o gli usi civici.
La sbornia produttivista e consumista dell'ultimo secolo, accelerata dalle tendenze del capitalismo globale degli ultimi trenta anni, ha fatto cadere in disuso il concetto dei beni comuni fino ad accorgersi oggi che ci devono essere dei limiti alle azioni economiche, senza i quali si compromettono non solo i beni comuni, ma la stessa sopravvivenza della nostra specie e di molte altre. Come esempio per tutti valga la problematica dei cambiamenti climatici in cui è evidente il legame tra azioni economiche e deterioramento di un bene comune particolare come la stabilità climatica.
Ridefinire oggi un’economia dei beni comuni significa quindi andare a determinare quelli che sono i beni comuni e quindi a favorire le azioni economiche che contribuiscono a rigenerarli.
Le classi di beni comuni sono molteplici, vi sono quelli legati all'ecosistema (ad esempio biodiversità, fertilità dei terreni, clima, qualità delle acque e dell'aria ecc.) alle risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili (acqua, aria, biomasse, minerali, combustibili fossili), alla cultura ed alla conoscenza (accesso all'istruzione, all’informazione, alle tecnologie ed agli strumenti informatici, accesso ai saperi ecc.), alla socialità (sicurezza, reti di relazioni, salute ecc.) a tutte quelle funzioni spesso invisibili (perché non monetizzabili) per l'attuale sistema economico, ma che non solo sono indispensabili al futuro del pianeta e dalla società, ma che rendono anche bella e felice la vita.
E’ evidente che in ogni società la definizione dei beni comuni passa per la scelta delle priorità collettive e si concretizza nella elencazione dei diritti del cittadino (come, ad esempio, nonostante i ripetuti attacchi, ancora avviene nella Costituzione della Repubblica italiana).

Nuovi criteri di equità economica e sociale
Se si parla di economie, non può essere eluso il tema dello sviluppo. Pur rivolgendosi questo documento ad enti locali, il discorso non può prescindere da un approccio complessivo.
Va subito precisato che il termine sviluppo va inteso in senso qualitativo e non quantitativo. Non è di crescita che parliamo, ma della necessità di restituire qualità ad un sistema economico allo sbando. Di fronte alla crisi dell’industria italiana, alla mancanza di un tessuto produttivo capace e lungimirante, ad un capitalismo fatto esclusivamente di privilegi e rendite, occorre reagire con determinazione e puntare proprio su una nuova qualità sociale ed ambientale, che sia veicolata e costruita attraverso le relazioni economiche, riportate dunque a mezzo e non più viste come fine.
E’ perciò fondamentale controllare almeno cinque assi pubblici di intervento:
- la redistribuzione delle risorse, dunque un’adeguata tassazione dei patrimoni, delle rendite, dei redditi alti, accompagnata da appropriati investimenti pubblici, servizi alla collettività, forme di sostegno monetario al reddito e alle fasce deboli;
- un ripensamento del sistema di tassazione che gradualmente passi dalla tassazione del lavoro a quella dell'uso di risorse, che sia sganciato dalla crescita dei consumi e che prenda in considerazione la messa a punto di tasse globali internazionali;
- un sistema dell’istruzione di qualità e avanzato;
- un’ampia attività di ricerca e innovazione in campo ambientale, economico, sociale;
- una reale regolamentazione dei mercati e dei servizi, attaccando i cartelli, i monopoli, dando reale voce al cittadino-consumatore-utente e sanzionando chi viola il regime di concorrenza. In tale campo è necessaria una presa di posizione contraria a come i temi del commercio internazionale sono governati dall'OMC (organizzazione mondiale del commercio-WTO) in particolare su servizi ed appalti pubblici.
Soltanto con interventi di questo tipo, tesi a qualificarci per vivibilità, relazioni sociali, tenuta ambientale, competenze, equità interna, il nostro sistema produttivo potrà continuare a garantire redditi adeguati, innovazione di processo (fondamentale anche per l’ambiente) e corretti rapporti di cooperazione internazionale (non basati né sull’esportazione di armi né sui dazi).

Una nuova pubblica amministrazione
Ma per fare ciò - propedeutico ad un sistema economico e industriale equo e sostenibile - occorre partire da una riforma dell’apparato della pubblica amministrazione che la riporti al suo vero ruolo di servizio al cittadino. L’Italia continua ad essere in fondo alle classifiche che riguardano la trasparenza e l’efficienza della pubblica amministrazione dei paesi industrializzati. Gli unici posti di rilievo riguardano l’indice di corruzione percepita da cittadini e funzionari pubblici.
La questione morale - insieme alla laicità dello stato e alla lotta alla mafia - deve essere una priorità di chi vuole costruire un’altra economia. Anche perché è con esse che presto ci si scontrerà.
Dunque non può esistere un’altra economia se non in un’altra forma di gestione della cosa pubblica: partecipata, democratica, trasparente, efficiente, responsabile. E questa gestione può e deve partire proprio dagli enti locali.

Le nuove economie
Sul fronte delle sperimentazioni di nuove economie orientate al bene comune esiste oggi un notevole dibattito ed una varietà di proposte economiche che potremmo chiamare eco-diversità.
Come avviene per gli ecosistemi crediamo che questa eco-diversità sia un buon segno, che misura le probabilità di trovare nuove strade, commisurate ai diversi contesti e in grado di reagire alle diverse criticità. Se una certezza ci arriva dal modello neoliberista, questa è infatti proprio nella assoluta invalidità di ogni ricetta economica preconfezionata.
In questo testo se ne fa un elenco parziale, approfondendone solo alcune in particolare e chiedendo intanto su queste agli enti locali di iniziare a impegnarsi e sperimentare.
Lasciamo quindi aperto il documento perché si possano evidenziare (grazie ai contributi che speriamo arrivino) anche approfondimenti e idee che al momento non siamo stati in gradi di approfondire.

Politiche e regolamenti di governo locale
Orientamenti UE sul tema delle economie solidali
Il trattato di Amsterdam – che integra quello di Maastricht che istituisce l’Unione europea - dedica un titolo specifico alla coesione economica e sociale, che costituisce uno dei fondamenti dell’Unione. Agli articoli 2 e 3, il Trattato dice che le Comunità europee hanno il compito, fra l'altro, di "promuovere uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri". Più nello specifico, il titolo XVII intitolato "Coesione economica e sociale" (artt. 158 - 162) afferma che l’obiettivo è quello di “ridurre il divario tra i livelli di sviluppo delle varie regioni ed il ritardo delle regioni meno favorite o insulari, comprese le zone rurali ed illustra la partecipazione della Commissione allo sforzo di coesione tramite l'azione che essa svolge attraverso i fondi a finalità strutturale”.
A fronte di questi principi costituitivi, le politiche settoriali dell'Unione non contengono però obiettivi chiaramente definiti in materia di economie solidali. Per rintracciare contributi in questa direzione occorre dunque considerare in modo più analitico l’insieme della strumentazione europea dedicata al “sostegno allo sviluppo” e alla “coesione sociale” (es. Fondi per Obiettivo 1 e 2; FSE; Iniziative Comunitarie; progetti e programmi Interreg, Urban, Leader, ecc.); al fine di individuare i supporti e gli spazi d’azione comunitari in materia di economie solidali.
In generale, comunque, nelle esperienze europee si trovano molti casi di progetti nell’ambito dei quali sono state avviate e sostenute numerose esperienze di economie solidali nelle loro diverse declinazioni. La ragione di questo apparente divario tra enunciazioni generali, indirizzi specifici delle politiche e loro attuazioni pratiche risiede nel fatto che, se gli spazi espressamente dedicati a questi temi sono relativamente pochi (anche se rintracciabili nei regolamenti di molte politiche comunitarie), la promozione di forme di sviluppo locale basate sulla partecipazione degli abitanti, su criteri di sostenibilità, sul rafforzamento del capitale sociale e sulla valorizzazione del patrimonio è comunque alla base degli stessi trattati costitutivi dell’Unione.
Per questo, a fianco di molte iniziative dei diversi organi dell’Unione (Commissione, Parlamento, Consiglio, ecc.) che sono chiaramente improntate a logiche neoliberiste, gli spazi offerti dall’UE per la costruzione di un rapporto fecondo tra istituzioni e economie solidali sono molti e attraversano potenzialmente tutte le politiche europee.
A sostegno di questa prospettiva, il Consiglio d'Europa - che raduna non solo gli Stati Membri dell’Unione, ma anche buona parte delle nazioni dell’area mediterranea, del medio oriente e altri Stati che hanno rapporti privilegiati con l’UE - ha avviato una serie di azioni e di consultazioni sul tema dei consumi e della finanza responsabile in rapporto al ruolo delle istituzioni e alle istanze della partecipazione dei cittadini. Scopo di queste consultazioni è quello di costruire una piattaforma comune europea sulla relazione istituzioni-“altre economie”, a partire dalla quale dare indirizzi più precisi alle politiche comunitarie.
Nell’ambito delle consultazioni previste per la redazione di questa piattaforma, il Consiglio d’Europa ha trattato diverse forme di economie solidali (es. sviluppo di welfare locali attraverso finanza etica e microcredito; promozione di circuiti autoregolati di produzione e consumo di prodotti agricoli come alternative alla Politica Agricola Comunitaria; federazioni di territori a partire da scambi commerciali equi e solidali; ecc.) allo scopo di definire meglio le possibili interazioni tra ambiti autoregolati e le politiche dei diversi livelli istituzionali.

Politiche di incentivo alle imprese
Quella degli incentivi alle imprese è questione complessa e controversa. Oggetto di grandi sprechi, clientele politiche, assistenzialismo che non produce nulla. Il nostro Mezzogiorno ne è triste testimone. Ma qualcosa può cambiare, soprattutto se si legano tali politiche alla dimensione locale, comunale più che regionale. Oggi questo accade solo in pochi casi, come per l’art. 14 della l. 266/97, che dà a dieci grandi città (Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli, Firenze, Cagliari, Bari, Venezia, Genova) la possibilità di gestire fondi per questo scopo.
L’esperienza è interessante, perché ha creato politiche di sviluppo di prossimità che hanno prodotto risultati efficaci, come l’incubatore a cielo aperto realizzato nel centro storico di Genova, e perché permette anche di dare un’interpretazione eterodossa di cosa sia impresa ed economia, come a Roma dove si è sviluppato con tali risorse un programma di interventi che comprende la creazione di una Città dell’altra economia, contributi alle imprese responsabili e bio-equo, da mettere in rete attraverso la costituzione di un vero e proprio Distretto dell’altra economia. Il tutto con la partecipazione di chi - quotidianamente - l’altra economia la pensa e la fa.
Interessante è anche l'ipotesi di incentivi alle filiere corte ossia alle produzioni locali che riducano la necessità di trasporti anche in fase di produzione magari anche attraverso l'istituzione di marchi locali o le DECO (denominazione di origine comunale).
Insomma, una buona occasione anche per gli enti locali per sperimentarsi sul terreno delle politiche di sviluppo. Un’occasione che va cercata e ampliata appena possibile.

Politiche volte a favorire modelli di benessere sostenibili
L'organizzazione dei tempi di vita e dell'ampiezza e qualità dei servizi di cui i cittadini usufruiscono è una delle chiavi per poter cambiare l'organizzazione della nostra società da un sistema dissipativo come l'attuale ad un circolo virtuoso in cui pur fermando la crescita del consumo di risorse si possa migliorare il benessere dei cittadini ed i beni comuni.
Per favorire questo passaggio occorre puntare molto sulla creazioni di reti pubbliche, private o informali che favoriscano il passaggio da consumo di beni a quello di servizi. Un tale risultato in alcuni casi si può semplicemente ottenere favorendo il noleggio di beni piuttosto che il loro acquisto, ma perché sia più efficace e più profondo occorre sperimentare anche quelle forme di organizzazione più complessa che molto hanno a che fare con la relazione tra persone e con la coesione sociale e possono portare a forme di condivisione di alcuni beni (auto, elettrodomestici, sistemi di riscaldamento, utensili...) trasformando di fatto la nostra relazione con gli stessi da possesso ad uso. In questo modo si favorisce la durabilità ed efficienza dei beni condivisi e la sufficienza nel loro uso.
Sono esempi a riguardo il car sharing ed il car pooling, l'iniziativa “cambieresti” del Comune di Venezia, ma anche alcuni esperimenti di “pay for use” da parte di privati (un tentativo di Ariston sulle lavatrici, ed una pratica che si va diffondendo per le fotocopiatrici).
Particolare attenzione meritano le esperienze di bilanci di giustizia, dei gruppi di acquisto solidale e delle banche del tempo per la potenziale capacità aggregatrice ed ruolo innovativo che possono svolgere.

Appalti pubblici
Il ruolo degli appalti pubblici per la sostenibilità ambientale e sociale
Gli enti locali sono grandi consumatori di beni e servizi, con un potere d’acquisto concentrato e aggregabile. Per questo motivo gli enti locali, attraverso l’integrazione di considerazioni di carattere ambientale e sociale nelle procedure d’appalto, possono contribuire alla costruzione di nuovi sistemi economici locali autosostenibili.
L’ente locale, orientando i propri appalti verso l’eco-sufficienza, può diventare un significativo “consumatore critico collettivo”.
Si stanno diffondendo in Europa, e recentemente anche in Italia, progetti ed esperienze di “appalti verdi”, o “acquisti pubblici verdi”, o, in inglese “green public procurement” - GPP.
La sostanza non cambia: inserire criteri di “preferibilità” ambientale (e sempre più spesso, anche etico-sociale) nelle varie fasi di un appalto pubblico. Si rimanda al documento elaborato da Simone Ricotta collaboratore di ARPAT in allegato per un approfondimento.

Le sponsorizzazioni etiche e i criteri di esclusione delle aziende
Grazie alla pressione della società civile, il Comune di Roma ha approvato alla fine del 2004 un regolamento per le sponsorizzazioni che prevede la costituzione di una Commissione etica che valuterà la coerenza delle imprese scelte rispetto ai criteri di responsabilità sociale e ambientale stabiliti dalle Nazioni Unite nell’agosto 2003. La commissione giudicherà anche i casi controversi, sentendo tanto le aziende quanto gli attori sociali rispetto a presunte violazioni e a comportamenti non corretti. Si tratta di una sperimentazione, una delle tante possibili strade che gli enti locali possono scegliere per dare un’impronta responsabile al proprio territorio. Attualmente si è in attesa che il Sindaco nomini i componenti la commissione. (
www.reteromanaconsumocritico.org)
Analoghe esperienze si stanno verificando con la campagna tesorerie disarmate (Comuni di Pavia e Firenze,
http://nodi.retelilliput.org/pavia/documenti/banche_armate/tesorerie_disarmate.htm).

L'uso e la promozione di software libero
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La politica energetica e le ESCO
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Politiche di partecipazione in rapporto alle economie degli enti pubblici

Bilancio partecipativo
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Le Monete locali
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Cooperazione internazionale
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Sperimentazione di nuove economie
Economia responsabile
Un'economia dei beni comuni non può che fare fondamento sul concetto di responsabilità delle azioni economiche, a cui va restituito un senso più alto del mero profitto monetario.
Il primo fattore per raggiungere tale scopo è la trasparenza delle filiere, requisito fondamentale per valutare l'impatto delle azioni economiche sui beni comuni.
Si devono quindi favorire, sicuramente per le imprese presenti sul territorio, ma non solo, tutti quei meccanismi (certificazioni, bilanci ambientali e sociali, marchi di qualità a controllo pubblico, forme di monitoraggio indipendenti, guide specifiche...) che consentano ai cittadini di orientarsi nella scelta dei prodotti.
In un'ottica di sperimentazione e promozione si devono incentivare quelle realtà che si muovono all'interno dei meccanismi di mercato portandovi con forza e coerenza meccanismi positivi di responsabilità sociale ed ambientale come le esperienze del commercio equo e solidale, della finanza etica, dell'agricoltura biologica su piccola scala, della cooperazione sociale.
Tali esperienze vanno sostenute mediante l'accompagnamento ad un livello di maggior coerenza ambientale e sociale orientata ai beni comuni, la partecipazione al capitale sociale, la comune progettualità.

Sostegno alle forme locali di autorganizzazione per i beni comuni
Una delle caratteristiche dei beni comuni come abbiamo scritto è la loro trasversalità rispetto alle possibili forme di economia. Probabilmente la forma di economia che ancora oggi ne tiene maggior conto è quella semi misconosciuta del cosiddetto “lavoro ombra” ossia tutte la attività di cura, di socializzazione, di volontariato che ancora vengono svolte nelle nostre società senza una retribuzione. Si tratta di gestire alcune “comunanze” a livello locale in modo da migliorare il contesto in cui viviamo. Queste possono andare da una gestione condominiale o di buon vicinato, al farsi carico di situazioni di disagio, all'uso e gestione di pezzi di territorio.
Si tratta di un ambito da riscoprire e valorizzare in quanto consente di far crescere un economia locale che non debba dipendere solamente dall'acquisto di beni e servizi o dall'erogazione di servizi pubblici, migliorando allo stesso tempo qualità della vita e senso di appartenenza.
Gli enti locali dovrebbero favorire e permettere la sperimentazione di tutte le forme di autorganizzazione che siano di supporto ad una economia attenta ai beni comuni come ad esempio le realtà di mutuo aiuto, il volontariato sociale ed ambientale, le banche del tempo, i gruppi di acquisto solidale, i fondi di microcredito locale e le MAG (Mutua auto gestione: cooperative finanziarie di finanza etica locale e conviviale).

Sostegno all'introduzione di stili di vita per i beni comuni
Le pubbliche amministrazioni, anche attraverso le forme di partecipazioni dei cittadini alla gestione dei beni comuni, devono favorire stili di vita meno consumisti e più responsabili in modo creativo e positivo. L'educazione al consumi irresponsabile è così radicata che ogni forma di attenzione ai beni comuni è percepita come limitante e negativa e non come portatrice di ricchezza in termini di relazione di qualità della vita. Dedicare risorse alla promozione di stili di vita responsabile mediante apposite iniziative (eco-equo sportelli, azioni porta a porta, aree ecologiche, strumenti dedicati) è sicuramente una modalità necessaria per ottenere risultati concreti anche in termini di risparmi per la collettività. Una particolare attenzione andrebbe rivolta alle potenzialità che ha il contatto del cittadino utente da parte delle realtà erogatori di servizi (acqua, energia, mobilità, rifiuti...) in quanto si tratta di contatti capillari e su temi già di interesse dei cittadini.

Rete delle Econome Solidali (RES) e Distretti di Economie Solidali (DES)
Il processo di riflessione e sperimentazione che ha portato prima alla stesura della Carta del Nuovo Municipio - e, successivamente, alla costituzione dell’Associazione Rete dei Nuovi Municipi - si fonda su un percorso lungo e pluriennale di pratiche sia istituzionali di sia autonome di “progetti locali”, volti a sostenere le tracce di modelli di sviluppo “altri” che siano fondati su un approccio locale. In questo lungo percorso, il tema della promozione di nuove economie si è concretizzato anche nell’incontro con il mondo variegato delle “altreconomie” che, fino ad anni recenti, è stato caratterizzato prevalentemente da pratiche “autonome” non intercettate né dalla ricerca universitaria, né dalle politiche istituzionali, né dal mondo dell’informazione.
Il riferimento è, ad esempio, a:
• creazione di reti di scambio economico locale - es. gruppi di acquisto solidali che operano indirizzando in senso bio-etico le produzioni food e non-food di un territorio;
• forme di consumo critico orientato ai singoli, alle famiglie, oltre che a gruppi, imprese ed enti pubblici (es. appalti verdi ed etici);
• monete locali e economie di scambio;
• gestione partecipata delle risorse economiche locali (economie della natura, ecc.);
• finanza e assicurazioni etiche; reti di microcredito legate a progetti locali;
• esperienze di tutela e gestione del territorio e dell’ambiente mediante produzioni agricole esplicitamente orientate in questa direzione;
• gestione partecipata di servizi pubblici;
• logistica e distribuzione “alternativa”;
• ecc..
Si tratta di pratiche che talvolta sono sperimentali e talvolta sono profondamente radicate in storie locali di lungo periodo e che vengono portate avanti da soggetti fra loro molto differenziati che operano utilizzando modalità di relazione tendenzialmente di tipo reticolare e non gerarchico.
In rapporto alle pratiche sopra evocate e alle riflessioni sull’approccio locale, a partire dalla metà del 2002 si è avviata in Italia la costituzione di una rete in grado di connettere a scala nazionale i soggetti che si riconoscono nelle diverse possibili declinazioni delle economie eque e solidali e che intendono dare forma a progetti locali in grado di consolidare forme di “altro sviluppo”.
L’idea di questa rete è maturata nell’ambito di Rete Lilliput (in cui già si riconoscono i GAS - Gruppi di Acquisto Solidali, le MAG, Banca Etica, le botteghe del commercio equo e tanti altri soggetti che praticano economie alternative, forme di consumo critico, produzioni etiche e biologiche, ecc.) ed è stata successivamente sviluppata in rapporto con una pluralità di altri soggetti. Il dialogo che si è sviluppato nel corso del processo di costituzione di questa rete ha portato alla definizione di criteri di lavoro comuni e alla condivisione di alcuni obiettivi di base che, in prospettiva, possono essere adottati da chiunque si riconosca nei principi costituivi della rete stessa.
L’intento - esplicitato fino dall’origine - è quello di rafforzare, collegare, diffondere e far conoscere in Italia le pratiche di economia solidale, avendo come obiettivo la promozione concreta di circuiti economici che operino attraverso la messa in rete “nodi di luoghi” nei quali possano operare in autonomia singole persone, associazioni, soggetti economici, istituzioni ed ogni altro soggetto potenzialmente interessato all’avvio e al consolidamento di pratiche di sviluppo diverso che si riconoscano in una serie di principi condivisi.
Il processo di costituzione di questa Rete ha portato alla redazione di una Carta delle Economie Solidali che sintetizza questi principi, i criteri di lavoro comune e i principali obiettivi che distinguono la rete, che viene denominata Rete elle Economie Solidali (RES).

I Distretti di Economie Solidali
Sviluppando un approccio di rete non gerarchico, la Rete delle Economie Solidali (RES) promuove raccordi funzionali tra “Distretti di Economia Solidale” (DES), che costituiscono il vero e proprio cuore – non centrale, ma anche esso decentrato e reticolare – dell’azione e delle pratiche. E’ nei distretti che si sperimenta e si dispiega la capacità delle altreconomie di organizzare cicli di produzione-distribuzione-consumo in grado di operare con la prospettiva dei progetti locali sopra evocati mediante la messa sistema di competenze e di pratiche nei campi del microcredito, della finanza etica; del commercio equo; del consumo critico; di forme di produzione sostenibile; di monete locali; di banche del tempo, ecc..
L’idea di fondo del distretto è quella di collegare le realtà locali creando dei circuiti economici, in cui - per quanto possibile - le esigenze dei vari nodi della rete (consumatori, commercianti, produttori) vengono soddisfatte rivolgendosi gli uni agli altri. In questo modo è possibile creare circuiti di scambio in cui le diverse realtà si sostengono l’una con l’altra attirando inizialmente le preferenze di quei consumatori che usiamo definire “critici” o “consapevoli”.
Più propriamente, come emerge dalla Carta della Rete delle Economie Solidali, i soggetti che appartengono ai distretti dovrebbero impegnarsi ad agire per:
1. valorizzare l’approccio locale e le caratteristiche dei luoghi (conoscenze, peculiarità ambientali, capitale sociale, ecc.) concependole come patrimonio da riprodurre e non come risorse da sfruttare;
2. promuovere economie di giustizia sia tra i membri dell'organizzazione produttiva, sia nei diversi ambiti dei sistemi sociali ed economici implicati tanto nel Nord quanto nel Sud del Mondo;
3. adottare criteri di sostenibilità tali da consentire una riduzione dell'impronta ecologica e da non compromettere, anche nel lungo periodo, l'organizzazione vitale (resilienza) degli ecosistemi.
Dal momento che la realizzazione di questi principi della Carta possono essere perseguiti solo attraverso la sensibilizzazione e il coinvolgimento strutturale di tutti i soggetti implicati, lo sviluppo dei distretti avviene nell’ambito di processi partecipativi che siano anche essi organizzati secondo approcci di rete strutturalmente diversi dai consueti meccanismi di inclusione-esclusione che vengono generati da una gestione centralizzata delle decisioni. Questo aspetto è particolarmente importante proprio per il fatto che l’obiettivo è quello di promuovere la transizione dal modello di sviluppo attualmente diffuso ad altre forme che, sia pure convincenti e sperimentate “per parti” (es. il commercio equo; le “nicchie del biologico”; ecc), devono ancora trovare adeguata rilevanza strutturale.
Questo implica molteplici forme di relazione con i diversi soggetti sociali, economici e istituzionali che possono avere un ruolo in questo processo di transizione strutturale e ciò può essere garantito solo con modelli organizzativi “strutturalmente” e “logicamente” aperti come quelli che derivano dall’epistemologia delle reti.
Le prime sperimentazioni di questi distretti sono in corso di avvio in luoghi che già ora si caratterizzano per la presenza significativa di soggetti attivi a livello locale su questi temi.
L’interesse per queste esperienze consiste anche nel fatto che molti elementi di trasformazione delle economie e delle società di cui esse si fanno portatrici, si stanno già praticando in diverse parti del mondo che, in una logica di rete, sono sempre più connesse con le realtà italiane. Il modello reticolare che si sta sempre più consolidando tende ad estendere a scala globale le modalità di azione locale, ed è questa idea del locale come punto di vista a dare sostanza all’idea della strutturazione dei DES come punto di partenza per riarticolare concettualmente e praticamente forme di altreconomie a più scale, compresa quella planetaria.
L’approccio locale dei DES è dunque diverso da quello di esperienze - pure interessanti e, potenzialmente, facenti parte della prospettiva qui descritta - di organizzazione chiusa basate su logiche di appartenenza ed è radicalmente in contrasto con i fenomeni di localismo difensivo, e si pone come sottosistema aperto di un più vasto sistema economico e sociale sostenibile.
Questo rapporto globale-locale basato sul consolidamento di uno sguardo locale pone il problema di come costruire reti di scambio e collaborazione basate su principi di equità e solidarietà che siano in grado di trasformare i rapporti tra società e istituzioni anche di livello superiore e di affrontare le "reti lunghe" del mercato e della società globale a partire dalla valorizzazione del locale.
L’idea di una rete (RES) articolata su distretti (DES) e in rapporto con una molteplicità di reti di altre parti del mondo incide su questo nodo problematico che è insieme teorico e pratico e che è ineludibile se si vuole dispiegare la forza innovatrice delle economie “altre”. In ciascun DES si tratta di comporre le forze esistenti con tutte le possibili sfumature di relazione “altra” con l’economia di mercato e con i suoi referenti istituzionali, al fine di orientare le forme dello sviluppo locale verso altre forme di trasformazione dei luoghi, delle loro società e delle loro economie e mettendo in discussione la nozione stessa di sviluppo.
Si tratta di operare un'inversione dello sguardo a partire dai luoghi per capire come, da puri supporti di un modello di sviluppo omologato, essi possano diventare l’occasione e il motore di una differenziazione degli "stili di sviluppo"; verificando come essi possano generare ricchezze, qualità della vita e sviluppo al di là dei semplici parametri misurati dal PIL e dai suoi derivati.


APPENDICE
Il ruolo degli appalti pubblici per la sostenibilità ambientale e sociale
A cura di Simone Ricotta - ARPA Toscana

Il quadro normativo
Alcune disposizioni legislative italiane vigenti, anche se con livello di applicazione tutta da verificare, obbligano le Pubbliche Amministrazioni all’acquisto di beni con determinate caratteristiche ambientali:
D.Lgs. 22 del 1997: le pubbliche amministrazioni debbono acquistare una percentuale di carta riciclata pari almeno al 40% del totale;
D.M. 27/03/1998: nel rinnovo annuale del parco autoveicolare, le Amministrazioni dello Stato, delle Regioni, degli enti locali e dei gestori di servizi pubblici avrebbero dovuto acquistare il 30% nel 2001 (50% nel 2003) di veicoli a carburanti alternativi;
L. 448 del 2001, finanziaria 2002: disposizioni alle pubbliche amministrazioni affinché almeno il 20% dei pneumatici necessari agli automezzi siano costituiti da pneumatici ricostruiti (art. 52, comma 14); disposizioni per l'utilizzo nelle pubbliche amministrazioni di beni ottenuti con materiali riciclati;
D.M. 203 08/05/2003: Norme affinché gli uffici pubblici e le società a prevalente capitale pubblico coprano il fabbisogno annuale di manufatti e beni con una quota di prodotti ottenuti da materiale riciclato nella misura non inferiore al 30% del fabbisogno medesimo. Il decreto 2032003 non è ancora effettivamente applicabile, ma sono uscite quattro circolari ministeriali in vista della sua piena applicabilità per i settori dei tessili, della carta, della plastica e del legno (pannelli).
Inoltre, il Ministero dell’Ambiente, nel 2002, ha previsto che entro il 2007, almeno il 30% dei prodotti e servizi della Pubblica Amministrazione avesse rispondere a un “requisiti ecologici” (Delibera 57 del CIPE, agosto 2002).
A comporre il quadro normativo si aggiungono le due fondamentali direttive europee sugli appalti pubblici 17/2004/CE (appalti pubblici degli enti erogatori di acqua, energia, trasporti e servizi postali) e 18/2004/CE (appalti pubblici di lavori, forniture e servizi). Gli Stati Membri dell’UE dovranno recepire le direttive entro il gennaio 2006.
Le due direttive contengono esplicitamente, per la prima volta nel sistema comunitario degli appalti pubblici, considerazioni di natura ambientale e sociale (il primo dei “considerando” delle direttive indica che esse chiariscono “…le possibilità per le amministrazioni aggiudicatrici di soddisfare le esigenze del pubblico interessato, tra l'altro in materia ambientale e sociale,…”).
Questo in linea con la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, che con le sentenze sul caso degli autobus ecologici di Helsinki, e della fornitura di energia elettrica “verde” di Wienstrom, ha definitivamente sancito la possibilità per la PA di considerare la tutela ambientale tra i criteri di aggiudicazione di un appalto.
E’ quindi possibile integrare considerazioni di carattere ambientale e sociale nelle varie fasi di un appalto pubblico:
- definizione dell’oggetto dell’appalto e delle specifiche tecniche:materiali, processi produttivi, riferimenti ai marchi ecologici, ecc.;
- selezione dei fornitori:esclusione per reati ambientali, valutazione della capacità tecnica di realizzare misure di gestione ambientale (riferimenti alle certificazioni ambientali), ecc.;
- criteri di aggiudicazione: criteri ecologici tra i criteri di aggiudicazione, oltre al prezzo, all’estetica, alle prestazioni, ecc.;
- modalità di esecuzione dell’appalto: metodi di trasporto delle forniture, ritiro dei rifiuti, riutilizzo degli imballaggi, ecc..
Per gli aspetti sociali, le direttive europee considerano, tra le condizioni di esecuzione di un appalto, a titolo di esempio, gli obblighi di assumere disoccupati di lunga durata o di introdurre azioni di formazione per i disoccupati o i giovani, di rispettare in sostanza le disposizioni delle convenzioni fondamentali dell'Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) nell'ipotesi in cui non siano state attuate nella legislazione nazionale, di assumere un numero di persone disabili superiore a quello stabilito dalla legislazione nazionale.

Le esperienze
In Italia, le prime esperienze risalgono alla metà degli anni novanta, con i casi del Comune di Ferrara (con le forniture di alimenti da agricoltura biologica nelle mense, citati anche nella monografia “Consumi” del Worldwatch Institute) e di Bolzano (carta e cancelleria).
Negli ultimi due anni si sono sviluppate molte esperienze, soprattutto nell’ambito dei processi di Agenda 21 locale.
Le esperienze più significative sono quelle delle Province di Torino (progetto “A.P.E. - Acquisti Pubblici Ecologici”, con un Protocollo di intesa tra tredici soggetti, pubblici e privati), Bologna (progetto “Acquisti Verdi”, con l’attivazione di un “multi-stakeholder forum”), Cremona (progetto “GPPnet: la rete degli acquisti pubblici verdi”), tutte realizzate nell’ambito delle Agende 21 locali provinciali.
Un elenco non esaustivo di Enti locali che hanno sviluppato iniziative, progetti e/o dichiarazioni di intenti sull’argomento:
Regione Toscana, Regione Emilia Romagna, Regione Marche, Provincia di Bologna, Provincia di Torino, Provincia di Cremona, Provincia di Reggio Emilia, Provincia di Modena, Provincia di Roma, Provincia di Pesaro, Provincia di Firenze, Provincia di Genova, Provincia di Milano, Provincia di Lecco, Provincia di Forlì, Provincia di Massa - Carrara, Provincia Autonoma di Bolzano, Comune di Ferrara, Comune di Sesto S.Giovanni, Comune di Ravenna, Comune di Colorno (Parma), Consiglio Regionale della Toscana, ARPA Toscana, ARPA Piemonte, ARPA Lazio, Parco Naturale dei Nebrodi (Messina).
Alcuni enti partecipano anche alla campagna europea “Procura+”, promossa da ICLEI (International Council for Local Environmental Initiatives), in particolare: Comuni di Sesto S.Giovanni, Ferrara, Reggio Emilia e Ravenna, Province di Torino e Cremona, ARPA Toscana, ARPA Piemonte e Parco Naturale dei Nebrodi.
La campagna promuove l’adozione di un modello di gestione degli “appalti verdi” e la sperimentazione di criteri ambientali condivisi su alcune categorie di prodotti.
Le categorie di prodotti per le quali si sono evidenziate le sperimentazioni sono: carta, servizi di pulizia, beni alimentari, apparecchiature elettroniche, autoveicoli e mobili per ufficio.

Un sistema di acquisti verdi
Dalle esperienze in atto si possono ricavare indicazioni per un percorso di implementazione del GPP in un ente locale:
1. volontà partecipata dell’ente di adozione di una strategia/politica di appalti verdi
2. il coinvolgimento e la formazione dei dipendenti
3. il coinvolgimento dei fornitori (informazione/formazione) e dei cittadini (comunicazione/partecipazione).
All’interno dell’ente, un sistema di GPP si può attuare attraverso un sistema di gestione analogo ai sistemi di gestione di altra natura (es.: sistema di gestione della qualità), partendo dalla valutazione dell’effettiva necessità dell’acquisto (l’opzione zero, o l’acquisizione di un servizio in luogo di un prodotto – estensione della responsabilità del fornitore), per proseguire con l’analisi quantitativa degli appalti, la programmazione di obiettivi graduali (percentuali di “appalti verdi” rispetto ad “appalti tradizionali”), il monitoraggio delle attività e il riesame delle azioni intraprese.
Per l’adozione di un sistema di GPP e l’identificazione delle caratteristiche ecologiche dei prodotti/servizi, alcuni progetti italiani hanno elaborato linee guida e manuali (ad es.: Province di Torino, Cremona, Roma e Forlì, Comune di Ferrara, ecc.).

Le tendenze in atto
Le tendenze in atto più rilevanti sono quelle connesse con l’introduzione di aspetti etici (diritti umani e condizioni di lavoro). Tra le prime esperienze in questo senso ci sono gli acquisti dei prodotti del commercio equo e solidale, sempre più frequenti nella “ristorazione solidale” (Comuni di Roma, Genova, Ancona, ecc…vedi Altreconomia n….), anche dopo l’approvazione di specifiche mozioni di sostegno in Senato, Camera e molti enti locali. Lo stesso accade per la ristorazione biologica (Comune di Roma).
Il progetto europeo “Fairprocura” (di cui CTM è partner) si occuperà proprio dell’introduzione del CEeS negli appalti pubblici.
Altra tendenza in atto è quella dei veri e propri boicottaggi, con il caso esemplare della Coca Cola, che partito dal Municipio XI del Comune di Roma, si sta diffondendo in tutta Italia, anche con il sostegno della ARNM. Sulla stessa materia va ricordato il lavoro della stessa Amministrazione Capitolina sulle sponsorizzazioni, da orientare in senso “etico”.
In tema di diritti umani e condizioni di lavoro, tra le iniziative significative a livello internazionale ci sono quelle del Canada (in particolare, della città di Vancouver, dotata di una vera e propria politica degli acquisti “no sweat”), e di Monaco (che ha iniziato una politica di selezione dei fornitori sulla base del rispetto delle convenzioni OIL).
In Italia, ARPAT ha adottato, oltre all’usuale regolamento degli acquisti, anche una vera a propria politica degli appalti, centrata sulla sostenibilità ambientale e sociale, con riferimenti alla promozione e utilizzo delle “Norme sulle Responsabilità delle Compagnie Transnazionali ed Altre Imprese Riguardo ai Diritti Umani” approvate il 13 agosto 2003 con la Risoluzione 2003/16 della Sotto-Commissione delle Nazioni Unite sulla Promozione e Protezione dei Diritti Umani.

Le sfide
Una sfida da giocare è quella della partecipazione dei cittadini alle scelte di acquisto degli enti locali: cittadini-consumatori che condividono e orientano le scelte di consumo critico dell’ente locale.
Sul piano delle innovazioni, il tema della valorizzazione di prodotti locali è una sfida tra le più interessanti: in un mercato comune europeo, dove le merci circolano solo in concorrenza di prezzo, le distanze geografiche non contano, il trasporto e le sue notevoli implicazioni ambientali non vengono valutate negli appalti pubblici. Come iniziare a valutare la distanza dei fornitori, favorire la ri-localizzazione dei sistemi economici, ed al contempo ottemperare al sistema normativo degli appalti?
La sperimentazione potrebbe riguardare, entro adeguati limiti, le emissioni di CO2 complessive emesse nel trasporto di un prodotto, in modo da non discriminare necessariamente il fornitore più distante che, dotandosi di mezzi meno inquinanti, può competere con il fornitore più vicino.
Certo, l’acquisto di un nuovo mezzo più eco-efficiente da parte del fornitore ha implicazioni ambientali…il discorso si fa più complesso…
Altro sfida è quella di connettere l’ente locale alle Reti di Economie Solidali e ai Distretti di Economie Solidali: l’ente locale può giocare il ruolo di soggetto promotore delle iniziative di RES e DES, ma può anche essere un significativo soggetto “consumatore”, che orientando i propri appalti, favorisce il legame all’interno della RES.
L’introduzione di valutazioni della forma societaria del fornitore, privilegiando le forniture da società cooperative, avrebbe bisogno di ulteriori approfondimenti.

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