Contro i territori di guerra, per un territorio dell'abitare
di Alberto Tarozzi
1. Premessa
Questo contributo intende produrre una riflessione che parte dalla evidente necessità di colmare il vuoto abissale costituito dalla distanza tra le dimensioni imponenti delle grandi manifestazioni contro la guerra del 2003, e il sostanziale annichilimento, salvo azioni puntuali, ma tutto sommato episodiche, dei movimenti pacifisti, proprio nel momento in cui la guerra andava prendendo forma nelle sue espressioni più devastanti di violenza e di morte.
E’ una riflessione che considera centrale il ruolo che la forma-guerra ha preso nelle sue molteplici espressioni di proiezione militarizzata sul territorio.
Contro queste espressioni i movimenti pacifisti hanno individuato obiettivi coincidenti coi luoghi in cui la militarizzazione assumeva il suo volto più esplicito, come le basi militari nazionali e internazionali o addirittura la caratteristica di enclave bellica di una superpotenza straniera.
La denuncia di queste forme, anche estreme, di militarizzazione del territorio rischia però di diventare pura testimonianza simbolica se si concentra solamente sui punti critici rappresentati dalle basi contro le quali esercitare periodicamente l’impatto di manifestazioni nazionali che nel corso del tempo esprimono i sussulti episodici di lotte che soffrono l’accerchiamento di un territorio più vasto, avulso dalle tematiche e dal dibattito relativi ai processi di smilitarizzazione.
Si rende allora necessaria la messa a punto di un discorso più vasto e puntuale, che recuperi sul territorio, la dimensione diffusa e di massa del popolo delle bandiere della pace, che rivolti come un guanto la dinamica dell’accerchiamento di cui movimenti come quelli contro le basi militari rischiano di diventare vittime predestinate.
2. Forma-guerra e pace preventiva, una sfida per i nuovi municipi
Da un lato occorre focalizzare una molteplicità di espressioni in cui la forma-guerra contamina i territori per formulare, nei confronti di ognuna di tali espressioni, i lineamenti di un processo di bonifica e di conversione che veda negli abitanti i protagonisti consapevoli e progettuali: contro i veleni rappresentati dal ciclo della produzione bellico-militare, ma anche, non di meno, contro i veleni di una produzione “civile”, che solo nominalmente è connotata da caratteristiche distinte da quelle che determinano i veleni militari in senso stretto con cui esiste invece un’interconnessione priva di soluzione di continuità.
D’altro lato occorre anche immaginare percorsi di costruzione di una pace preventiva che veda, nella produzione di valore aggiunto territoriale, di progetti di sviluppo locale autosostenibile, delle reti lunghe della cooperazione decentrata, l’alternativa dal basso alla gerarchizzazione dei luoghi e dei tempi della vita quotidiana; un’alternativa che contrasti le logiche dei giochi a somma zero (vincere/perdere, amico/nemico, servo/padrone) che la guerra produce e di cui la guerra è il prodotto, che prepari la pace togliendo alla guerra alcune delle ragioni del suo stesso esistere.
In entrambi i tipi di percorso affidiamo al territorio come bene comune, come spazio di una pubblica fiducia tra la società civile e le istituzioni, un ruolo di protagonismo.
Intendiamo cioè il territorio come terreno di gioco in cui la contrapposizione tra forma-guerra e pace preventiva deve trovare una soluzione che consenta la rottura dell’accerchiamento dei movimenti negli spazi ristretti circostanti le basi e nei tempi episodici delle grandi manifestazioni.
Intendiamo il territorio come luogo di aggregazione e di messa in rete delle esperienze dal basso di cantieri di costruzione di un altro mondo possibile nel quale i movimenti trovino, come primo e più prossimo interlocutore istituzionale, quegli Enti locali che nella proposta di una Rete di Nuovi Municipi vengono identificati come i portatori dei contenuti di una progettualità politica e culturale sostanzialmente nuova.
Provvediamo in questa sede ad illustrare un’agenda articolata in sei punti, all’interno dei quali si possono individuare i binari entro cui canalizzare, miscelate tra loro, entrambe le tipologie di percorso sopra individuate: tanto quelle di bonifica e conversione dei veleni presenti, quanto quelle di costruzione progettuale di una pace preventiva.
3. Agenda di lavoro
- Punto 1. Stili di vita per una pace preventiva
Siamo stati fino ad ora abituati a leggere le esperienze che esprimono opzioni alternative allo stile di vita e di consumo del nostro modello di sviluppo, unicamente secondo un’ottica di sobrietà e di rispetto per valori etici ed ambientalistici. Dobbiamo però andare oltre, nel leggere quelle esperienze sapendone cogliere anche un altro aspetto, solo apparentemente secondario. Dietro i gruppi di acquisto, le botteghe, le varie forme dell’economia solidale e i bilanci di giustizia sparpagliati sul territorio è possibile incontrare non soltanto i volti di mondi in cui le relazioni tra gli esseri umani sono più autosostenibili, eque e solidali, ma anche la messa in discussione di uno sviluppo che, nell’atto del suo riprodursi va invece incontro alla propria autodistruzione, consumando irreversibilmente risorse scarse, determinando gerarchie posizionali in cui il successo degli uni può solo coincidere con la sconfitta degli altri, alimentando le fortune dei pochi e la pura sopravvivenza dei tanti mediante la distruzione progressiva di risorse energetiche centrali al modello, ma scarse e non rinnovabili come il bene-petrolio o, per altro verso, il bene-acqua. In quale altro modo è possibile costruire una pace preventiva, se non si estromette dal gioco una posta in palio che solo pochi si possono aggiudicare e, quei pochi, solo dopo avere sconfitto per via militare coloro che dal godimento di quel determinato bene vanno esclusi, onde evitare che l’affollarsi dei consumatori ne deteriori la qualità e ne metta a repentaglio l’esistenza?
Meno, ma meglio, è un punto di vista che coniuga sobrietà, risparmio energetico e qualità della vita. Ma che consente anche un futuro in cui la ricchezza dell’abitare e del vivere sia il frutto di una necessità del cooperare e non dello sconfiggere militarmente il nemico. Sono questi gli stili di vita che consentono di prevenire la guerra e queste le espressioni dei network associativi che le istituzioni più vicine alla cittadinanza hanno il dovere di sostenere e di facilitare nei loro percorsi di radicamento e di moltiplicazione. Stili di vita che diffondono saperi e consuetudini coniugabili con l’utilizzo di produzioni energetiche alternativa, che limitino la nostra impronta ecologica, che forniscano un benessere non misurabile più solamente in base di un esclusivo parametro economicistico come il prodotto interno lordo pro capite.
- Punto 2. Smilitarizzazione contro la produzione di morte
La forma-guerra è presente nella vita produttiva e finanziaria di un Paese, sia nell’industria delle armi come fabbrica di distruzione in quanto tale, sia al momento del finanziamento del ciclo di produzione dell’industria bellica attraverso il prestito e la partecipazione del sistema bancario. Fabbriche di morte e banche armate rappresentano termini ormai usuali nel lessico dei movimenti pacifisti. Si potrebbe proporre alle istituzioni municipali un percorso di allontanamento da questi centri del potere produttivo e finanziario: una presa di distanze assimilabile, per qualche verso, alle recenti prese di posizione dei Municipi romani nei confronti della Coca Cola per i suoi atteggiamenti quanto meno antisindacali in America latina. Riconosciamo che il problema va affrontato tenendo conto delle implicazioni che la presenza di una forte industria bellica induce sul quadro occupazionale locale e nazionale. Ma confrontarsi con questi livelli di complessità comporta a maggior ragione una progettualità di largo respiro che coinvolga gli Enti locali e le forze sindacali e associative, in grado di formulare piani di riconversione dell’industria bellica, che allontanino il ricatto legato ai rischi di perdita del posto di lavoro e avanzino ipotesi di eticizzazione del mercato finanziario.
- Punto 3. I territori dell’abitare: un’alternativa al controllo militarizzato della vita quotidiana
La militarizzazione della vita quotidiana, intesa come forma di restrizione della libertà del vivere e come gerarchizzazione del comando istituzionale sulla vita degli abitanti, coincide solo parzialmente con la installazione di apparati, di strutture e di edifici con un’esplicita destinazione di carattere militare. Ci limitiamo in questa sede ad una pura e semplice elencazione di ambiti istituzionali e del vivere civile nei quali, anche recentemente, si sono affermate istanze coerenti con una militarizzazione crescente della vita quotidiana cui opponiamo la proposta di uno scenario in cui la libera circolazione degli individui, la proliferazione di luoghi di incontro aperti e per ciò resi sicuri dallo spirito di socialità che vi si può costruire, dia vita a un effettivo territorio dell’abitare: costruzione di grandi opere e di centrali che possono essere ritenute oggetto di attentati ad alto rischio e che richiedono quindi il dispiegamento di un apparato di difesa militare particolarmente invasivo degli spazi e lesivo delle autonomie territoriali locali; militarizzazione del corpo dei Vigili del fuoco; blindatura delle città, in orari e luoghi ritenuti particolarmente critici, per ragioni di sicurezza; criminalizzazione e reclusione delle fasce deboli degli abitanti, come nel caso della politica dei Centri di permanenza temporanea per gli immigrati senza permesso di soggiorno, spesso provenienti da territori in guerra; dotazione di armi speciali per le forze di polizia, capaci di produrre effetti sempre più nocivi alla salute dei cittadini e tali da determinare forme di repressione più violenta nei confronti delle manifestazioni di dissenso; dilatazione delle sfere della vita civile sottoposte a legislazione militare (come nel caso dei doveri dei giornalisti in tempo di guerra o il segreto militare applicato alla presenza e all’uso di sostanze tossiche che incorrerebbero nei divieti della legislazione civile): va ricordato in positivo, in quest’ultimo caso, il riconoscimento dei diritti dei cittadini ad essere informati sull’esistenza di materiali bellici ad alto rischio, presso le basi militari, riconoscimento dovuto al fatto che i medesimi cittadini debbono essere tenuti al corrente degli eventuali piani di evacuazione conseguenti ai rischi che la detenzione di tali materiali produce. Va invece ricordata in negativo, la tragica differenziazione dei territori in aree di interesse militare e non, che sicuramente non ha facilitato la prevenzione e i soccorsi nelle zone del sud-est asiatico devastate dallo tsunami.
- Punto 4. Smilitarizzazione contro l’avvelenamento “civile” dei territori
Quando un territorio risulta avvelenato da scorie, rifiuti e sostanze tossiche, la linea di demarcazione che separa i fattori di tale avvelenamento in fattori “militari” e fattori “civili” è sovente impalpabile. Sicuramente, per gli abitanti che subiscono le conseguenze dei veleni che li circondano, non è di grande consolazione sapere che la fonte che mette a repentaglio la loro salute e spesso la loro sopravvivenza, non è in senso stretto situabile all’interno dei reticolati che difendono i territori formalmente militarizzati. D’altronde, i bombardamenti della Nato sui petrolchimici della ex-Jugoslavia ci hanno dimostrato come obiettivi civili, ad alto potenziale inquinante, colpiti anche soltanto da armi convenzionali, possono assumere il ruolo di luoghi di una catastrofe dai contorni ecologico-sanitari altrettanto inquietanti di quelli che potrebbero essere determinati dal bombardamento di obiettivi militari in senso stretto. Ma è proprio l’assenza di una linea di demarcazione universalmente condivisa che deve spingerci a classificare negli ambiti di una battaglia contro la militarizzazione del territorio tutti i veleni che il sistema produttivo contemporaneo riversa contro i suoi abitanti, come un vero e proprio atto di guerra contro la salute del genere vivente. In questo senso va visto con preoccupazione il progressivo aumentare dei siti inquinanti e il moltiplicarsi delle loro tipologie: contaminazione e uso improprio delle risorse idriche, sempre meno considerate come beni pubblici; stoccaggio e riciclaggio di rifiuti e scorie tossiche di ogni genere, ivi comprese quelle radioattive, da collocare in contiguità con la produzione militare; apparati di controllo e informazione, tra cui è difficile distinguere l’uso civile da quello militare, come nel caso di radar, antenne e altre possibili fonti di elettrosmog. Anche in questi casi il rapporto tra movimenti, associazioni, ricercatori e istituzioni locali andrà finalizzato all’affinamento dei saperi sull’impatto sociale ed ambientale di tali installazioni. Solo così sarà possibile innescare processi informativi e decisionali che stabiliscano le modalità di conversione al civile “pulito” e/o di eventuale chiusura di attività incompatibili con la salute degli abitanti nel rispetto dei diritti dei lavoratori come di quelli dei cittadini per aprire a tutti nuovi luoghi di vita e di incontro.
- Punto 5. Smilitarizzazione contro l’avvelenamento militare dei territori
Questo punto riguarda in senso stretto le azioni e i provvedimenti cui dare vita in risposta alla installazione e all’allargamento di basi militari sul territorio, alla disinformazione che circonda le loro strutture e il loro funzionamento, all’impatto che la loro presenza induce sul territorio circostante. In questo senso è fondamentale circoscrivere gli ambiti del segreto militare come strumento in grado di impedire una documentazione e un’informazione adeguate sulla presenza e gli effetti di sostanze il cui uso può determinare conseguenze gravi sulla salute dei cittadini, che la stessa scienza ufficiale è in grado di valutare solo in tempi lunghi, con ricerche approfondite e costantemente aggiornate. In particolare i porti nucleari, i poligoni di tiro, oltre alle già citate installazioni di strumentazioni sia civili che militare legate alla produzione di elettrosmog vengono oggi sempre più classificati dagli esperti come potenziale origine di forme tumorali oggetto di studio: pensiamo ai tumori determinati dalle polveri dei poligoni di tiro o dalle installazioni nucleari o dall’uranio impoverito. Portare alla luce questi fattori di rischio è solo il primo passo, che deve vedere impegnati istituzioni locali, ricercatori e mondi associativi e deve fornire materia prima di conoscenza e riflessione agli abitanti e agli eventuali movimenti contro la militarizzazione dei luoghi, per la riconversione autosostenibile e partecipata al civile dei siti bonificati. Si tratta di una premessa indispensabile per conferire ai soggetti impegnati su questi temi materiali scientifico-informativo che rendano possibile una continuità d’azione e una presenza capillare, efficace e competente, sul territorio nazionale. Un’attenzione particolare va inoltre riservata ai luoghi sedi di basi militari soggetto a un comando che esula dalle istituzioni nazionali (Nato, Usa). In questo caso il coinvolgimento degli Enti locali risulta indispensabile per determinare un avanzamento dei negoziati da scala locale a casa regionale fino a coinvolgere i livelli politici nazionali e internazionali. Le recenti prese di posizione della Regione Sardegna sulla presenza non procrastinabile delle basi statunitensi a La Maddalena, coniugato con le ricerche degli Scienziati contro la guerra oltre che con le prese di posizione dei movimenti, delle associazioni ambientaliste e degli altri Enti locali lascia intravedere i primi passi di un percorso orientato nella direzione necessaria.
- Punto 6. Cooperazione internazionale e mediazione culturale: le reti lunghe della democrazia dal basso
La guerra è per sua natura un fenomeno non circoscrivibile nella dimensione delle società locali, ma un fenomeno che si dispiega su scala internazionale, cui vanno date risposte efficaci che oltrepassino i confini dei singoli Stati, anche se la lontananza a cui è necessario fare riferimento non è solamente di tipo fisico; essa pertiene anche la distanza culturale che separa i migranti dalle società di accoglienza e tra loro stessi, una distanza e una difficoltà di comunicare che alimentano diffidenze e conflitti che possono a loro volta nutrire le cause della nascita e della perpetuazione delle guerre ai quattro angoli del mondo.
a. La cooperazione decentrata. Spesso la cooperazione internazionale e, nella fattispecie del ruolo assunto dagli Enti locali, quella decentrata, sono state viste come un possibile antidoto alla deflagrazione dei conflitti. Purtroppo, al di là della buona volontà dei singoli attori istituzionali e della società civile, le iniziative di prevenzione dei conflitti o di interposizione tra le parti, i tentativi di costituzione di una diplomazia parallela, hanno avuto raramente il potere di invertire o sia pure modificare significativamente la rotta determinata da scelte politico-militare effettuate in stanze impermeabili alle voci della società civile contro la guerra. Perché atti simbolici pur necessari e intensi non rimangano fini a se stessi, occorre probabilmente immergersi nella profondità degli abissi di catastrofi cui pure noi, direttamente o indirettamente, abbiamo contribuito: rivisitare noi stessi, toccando con mano le conseguenze di quanto è finora avvenuto e partire di qui, insieme alle popolazioni colpite, per un’opera di ricostruzione dell’abitare che non è solo bonifica dalla tossicità fisica della guerra, ma anche progetto di sviluppo locale e cosmopolita di un tessuto sociale e civile, disintossicato dai veleni dell’odio e della propaganda bellica.
Da questo punto di vista vanno ritenuti esemplari i progetti di monitoraggio e bonifica delle città oggetto di bombardamenti ad alto impatto ecologico e sanitario (progetti d’avanguardia portati avanti col supporto di singole amministrazioni locali in Emilia-Romagna e nel Veneto). Analogamente vanno situati nel quadro di una smilitarizzazione del vivere civile i progetti di ospitalità nei confronti di popolazione infantile contaminata (è il caso di Chernobyl) dai veleni di una produzione “civile” dell’energia.
b. La mediazione culturale. Per altro verso è altrettanto evidente che, senza varcare i confini, i germi del pregiudizio, dello scontro etnico, religioso, nazionalistico, vale a dire gli elementi che i trombettieri delle nuove guerre utilizzano a proprio uso e consumo enfatizzando diversità che potrebbero viceversa essere fonte di reciproco arricchimento, possono sedimentare risentimenti e odi anche nel perimetro più circoscritto dei nostri territori. Sicuramente l’iniziale difficoltà di comunicare, abbinata ai disagi che territori inospitali rischiano di moltiplicare, può costituire la premessa di miscele esplosive che già altre metropoli dell’Occidente stanno sperimentando. Il nuovo municipio risponde a questa sfida destinando risorse alla mediazione culturale a partire da luoghi strategici, come soprattutto la scuola, ma anche l’ambito sanitario, i luoghi di lavoro, là dove, cioè il contatto tra culture diverse è nello stato delle cose e dove la partita, tra una cittadinanza inclusiva della diversità degli abitanti e il costituirsi dei ghetti come microcosmi di guerra, è una partita che si può e si deve vincere.
4. Conclusioni
Riassumiamo i punti dell’agenda fin qui definita in termini di contenuti, allo scopo di fornire di connotati la cornice degli obiettivi verso cui convergere e di definire un metodo di lavoro.
Obiettivo di fondo è la costituzione di un quadro operativo che consenta una continuità di interventi a un movimento che è finora vissuto tra picchi di partecipazione fisica di massa e una relativa fragilità di tenuta. Un movimento che stenta a sedimentare sui territori e a far fiorire in forma estesa e capillare quei semi che il popolo delle bandiere arcobaleno era sembrato disponibile a coltivare.
I rischi da cui non ci si è fin qui riusciti a liberare sono l’episodicità periodica delle manifestazioni di massa incentrate su parole d’ordine generali come il no alla guerra e il sostanziale accerchiamento di cui hanno sofferto i movimenti antimilitaristi nella loro ricerca di aggiudicarsi poste in gioco significative sul piano degli obiettivi specifici e concreti come le basi, le fabbriche di armi o i grandi impianti.
Il metodo di lavoro, commutato dalle esperienze recenti ma già dense della Rete dei nuovi municipi, è rappresentato da una proposta di messa in rete del mondo delle associazioni e dei movimenti coinvolti da esperienze inscritte nei sei punti della presente agenda (contro la guerra, ma non solo) con il mondo della ricerca e con gli esponenti più sensibili all’argomento, presenti nell’universo politico delle amministrazioni locali.
Alcune esperienze sono già in atto. La costituzione di un gruppo tematico sull’argomento potrebbe dare impulsi nuovi, operare connessioni fin qui inesplorate e indurre la crescita accelerata delle iniziative finora intraprese solo embrionalmente.
Contro i territori di guerra, per un territorio dell’abitare.
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