Lo stato dell'Unione
È strano come, con l'avvicinarsi della scadenza elettorale, l'attenzione pubblica si stia spostando sempre più decisamente verso la superficie, dove la discussione propriamente politica lascia il campo ad una serie - assai poco decorosa in verità - di "botta e risposta" a suon di vuoti motti di spirito fra i leaders, trasformati in testimonials di se stessi; in questa linea, la stessa presentazione del programma dei due schieramenti è passata come una mossa mediatica, tendente in primo luogo a promuovere l'immagine dei candidati - e solo marginalmente ad esporre le opzioni materiali che orienteranno l'azione di governo: sintomatico come, delle 281 pagine scritte dagli "esperti" dell'Unione, sia stato oggetto di osservazioni soltanto il numero, e non piuttosto il contenuto. Ma è legittimo chiedersi cosa ci stia scritto, in tutte quelle pagine, o dovremmo valutarle solo secondo parametri televisivi come la lunghezza, il format o la pregnanza del lessico?
Diciamocelo, il documento dell'Unione non brilla per efficacia comunicativa: il fiorire di tutta una serie di "abbecedari", schede di sintesi e vulgate varie ne fa fede, confermando l'impressione che, più che esporre in dettaglio le azioni concrete da intraprendere, si sia inteso disegnare una nuova e complessiva filosofia della politica, un nuovo modo di concepirla e praticarla in opposizione a quello della coalizione - si spera - uscente. Vediamo allora qualche punto per noi saliente di questo programma, che la Destra accusa di essere talmente tranchant da non poter supportare la convergenza di forze eterogenee che dovrebbe giustificare il nome di "Unione".
Partiamo dalla partecipazione. Tralasciando il vano esercizio di contare le occorrenze della parola, troviamo il concetto, nell'accezione generale a noi familiare, essenzialmente in tre righe a p. 12 (peraltro viziate da un refuso): "incentiveremo e diffonderemo le esperienza di democrazia partecipata a livello locale, favorendo il dialogo tra le istituzioni e i soggetti della società civile". Nel resto del documento esso è presente in modo davvero assai diffuso, associato di volta in volta a tematiche quali la garanzia di rappresentatività delle consultazioni elettorali (9sgg.), le pratiche concertative del Governo con gli altri livelli istituzionali e le "parti sociali" (16sgg.), la gestione interna del sistema giudiziario (49sgg.) o militare (80), la promozione dell'unità e della cittadinanza europea (86sgg.), la cooperazione internazionale (103sgg.), le politiche infrastrutturali (137), energetiche (144) e per la tutela dell'ambiente (145, 152), il governo del territorio e la gestione di rifiuti e risorse (146sgg.), la scuola (175sg., 229sgg.), la sanità (182sgg. - il passaggio forse più avanzato, in cui si parla anche di welfare locale e di sviluppo di comunità), il Terzo Settore (191sg.), le politiche per l'inclusione sociale (216) e l'accoglienza (254), l'innovazione digitale (264), la cultura e lo sport (280). Non c'è che dire, il documento sembra pervaso in modo capillare da un'ottima volontà partecipativa; ma, con buona pace di Totò, non è la somma che fa il totale: manca un passo ulteriore e decisivo, quello che - secondo il Governatore toscano Martini - consiste nel rendere la partecipazione una pratica ordinaria, non episodica, che "implica una diversa forma di manifestarsi del governo pubblico" in tutti gli ambiti e a tutti i livelli.
Passiamo poi alle tre parole d'ordine della recente Assemblea di Bari, "federalismo", "municipale" e "solidale". Dopo la critica del modo contraddittorio e altalenante in cui la riforma federale è stata condotta dal Governo, ci si impegna ad attuare il federalismo non "come suddivisione locale di competenze centrali", ma per costruire "un meccanismo di decisione che tenga conto delle ripercussioni che le scelte politiche esercitano sul territorio e sugli equilibri complessivi di finanza pubblica. Per questo oltre ad attivare un sistema efficiente di federalismo fiscale occorre rafforzare il ruolo dei luoghi della concertazione istituzionale" (208), appellandosi, nelle more dell'istituzione del Senato Federale (16), al principio di sussidiarietà come garanzia di sinergicità fra i vari livelli dell'azione istituzionale (154), e a quello di solidarietà per scongiurare sperequazioni a danno di quadri sociali-territoriali svantaggiati quale quello meridionale (182). Anche in questo caso, gli ingredienti sembrano esserci tutti: garanzia dell'autonomia sostanziale degli Enti Locali, privilegio del governo di prossimità e della finanza locale, integrazione sussidiaria fra politiche locali e nazionali - con la solidarietà e la cooperazione, piuttosto che la competitività, come principi ordinatori dell'interazione. Meno chiaro è il rapporto fra questi elementi, che non riposano su di un progetto unitario di riforma delle procedure di decisione e dei meccanismi della democrazia che riconosca il primato del governo locale come espressione diretta della sovranità popolare, e le dinamiche partecipative attivate localmente e condivise in reti di solidarietà come il punto di partenza e di arrivo di tutte le scelte politiche. Peccato.
In ultimo, veniamo al modo in cui il documento è stato prodotto. La "Fabbrica del programma" di Prodi, con la sottintesa dinamica di consultazioni allargate, è parsa da subito un'innovazione radicale rispetto alla consuetudine di affidarsi a sondaggi ed esperti di marketing per sapere quale prodotto sia più gradito ai potenziali elettori; la Sinistra sociale ha subito raccolto la sfida, organizzando una serie - a volte anche pletorica - di assise volte ad integrare ed estendere questo processo (la Camera di consultazione, il Cantiere per la democrazia, Cambiare si può, le Secondarie etc.), a diverse delle quali la Rete - nello spirito del programma partecipato di San Valentino per la Toscana - ha preso parte assai attiva. Peccato, anche qui, che avessimo capito male: la Fabbrica infatti, seppure con metodi di consultazione effettivamente innovativi, non era altro che un gabinetto privato del candidato, accessibile solo per chiamata diretta del suo staff; e l'interlocuzione con le varie sedi di elaborazione condivisa del programma si è limitata, di fatto, ad un'implementazione formale del comune giro di ricerche di mercato preelettorali a cui ogni buon John Doe del mondo è obbligato. Dobbiamo quindi essere davvero lieti del buon lavoro che gli "esperti" prodiani, nonostante questo oggettivo décalage di partenza in termini di democraticità, sono riusciti a fare.
Nella costruzione di questo programma, insomma, molti buoni passi sono stati compiuti, che alla fine lo hanno dotato di quasi tutti i mattoni necessari ad edificare il Nuovo Municipio - ma non ancora del progetto come tale: col rischio, passata la grande bagarre del voto, di dover lasciare lì accatastati quei mattoni come un puro repertorio di azioni possibili - la cui funzione è stata essenzialmente limitata al reciproco riconoscimento di elettori e candidati come appartenenti alla stessa famiglia - per cedere il passo alle grigie decisioni ordinarie di ogni politica verticistica. Senza preoccuparci delle accuse interessate e pretestuose di scarsa coesione (come ha dimostrato l'elezione di Vendola, è proprio sulle scelte radicali che si costruisce l'unità), sta ora a noi, alla nostra opera quotidiana di pressione ed interlocuzione con i rappresentanti, di produrre la malta con cui i mattoni possono essere connessi in una struttura coesa e dotata di senso. Magari disinteressandoci dei "faccia-a-faccia" televisivi (in cui quello che può passare è, per l'appunto, tutt'al più la faccia) e delle vuote regole formali della par condicio (che assumono il pubblico degli elettori come una maniata di minorenni disorientati) per impugnare da subito gli strumenti di costruzione di un'autentica democrazia partecipativa.
(AMC, 5 Marzo 2006)
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