Ricerca nazionale finanziata dal
Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica
(MIUR)
“Sviluppo di Comunità e partecipazione”
Responsabile
scientifico nazionale: Ivano Spano
(Università di Padova)
“Atlanti valutativi
di progetti partecipati per lo sviluppo locale autosostenibile: La Carta del
nuovo Municipio”
Documento di lavoro:
Per un futuro autosostenibile dei luoghi: cantieri
in corso
(Terra
Futura, Firenze 2 aprile 2004)
Responsabili
operativi sede di Firenze:
Gruppo di lavoro:
Michelangelo Caponetto
Angelo M. Cirasino
Laura Colini
David Fanfani
Giancarlo Paba
Camilla Perrone
Micol Pizzolati
Daniela Poli
Francesca Rispoli
Alberto Tarozzi
Cantieri in
corso per la costruzione di un Atlante di pratiche che
instaurino o rinnovino relazioni collaboranti fra movimenti, municipi ed altri
soggetti territoriali.
Premessa
Nell’ambito della
riflessione aperta dal processo costituivo della Rete del Nuovo Municipio,
alcuni gruppi universitari di ricerca intendono promuovere un confronto che
possa stimolare il dibattito sul trasformarsi delle pratiche di governo
territoriale e dei loro principali contenuti di riferimento.
In particolare, alcuni
ricercatori e docenti del Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del
Territorio dell’Università di Firenze e del Dipartimento di Sociologia
dell’Università di Bologna stanno cercando di creare un ‘ponte’ tra la ricerca
nazionale interuniversitaria “Sviluppo di comunità e partecipazione” (www.koisema.org) e la Rete del Nuovo
Municipio (www.nuovomunicipio.org) attraverso la costruzione di un Atlante
che censisca esperienze territoriali – italiane ed euromediterranee -
centrate sull’attivazione di processi partecipativi in grado di promuovere relazioni
collaboranti fra movimenti, municipi ed altri attori territoriali, in un’ottica
di sviluppo locale autosostenibile che rinnovi i modi e i contenuti dei
progetti di trasformazione del territorio.
Nei documenti
distribuiti in occasione dell’incontro costituente di Empoli (8 novembre 2003)
è stata adombrata una prima ipotesi di lavoro, messa al centro di un dibattito
critico che ne ha arricchito obiettivi e metodologie di lavoro, permettendole
di rispondere in modo più compiuto alle molteplici attese di cui è stata
caricata da quanti ne sono venuti a conoscenza. La discussione è continuata nei
mesi successivi, portando all’introduzione di alcune trasformazioni di rilievo
sia negli strumenti di indagine lì ipotizzati, sia nel ventaglio dei modi di
rappresentazione delle esperienze esaminate.
Il presente documento rappresenta un passo successivo
nella costruzione dell’Atlante, ma soprattutto uno strumento per
comunicare ai presenti all’Assemblea Generale della Rete del Nuovo Municipio
come alcuni ‘cantieri in corso’ procedano in una direzione coerente con
la carta fondativa della rete, e come solo una fattiva collaborazione di tutti
i soggetti del territorio per rifondare le politiche locali e i percorsi di
trasformazione territoriale possa contribuire ad un mutare dello sguardo.
Questo ‘slittamento del punto di vista’ dovrà necessariamente abbandonare
l’accademia per immergersi in forme di ‘ricercazione’ in grado di stimolare
l’arricchimento, la ‘contaminazione’ mutua, l’emulazione critica e
l’apprendimento reciproco tra pratiche innovative che prendono forma in
contesti territoriali sovente diversi e lontani, in una comune volontà di
cambiamento del rapporto tra politica e cittadini che sia rispettosa delle
tradizioni, delle risorse e delle specificità culturali di ogni luogo.
Obiettivi generali e
specifici della ricerca.
Il progetto locale, nell’approccio territorialista allo sviluppo locale autosostenibile proposto dal gruppo di docenti e ricercatori
che conducono la ricerca, include una visione politica che si esplicita in azioni finalizzate alla
crescita e al consolidamento delle società locali sapienti; in sostanza nel “fare
società locale”, ritessendo relazioni virtuose con il proprio ambiente
insediativo e reinterpretandone i valori territoriali. L’incarnarsi di questa
idea nella politica, nelle politiche, nel linguaggio e nelle azioni dei governi
locali è un lento processo in atto fra molte contraddizioni, che cerca di
rispondere alle sfide della globalizzazione e di superare l’attuale
biforcazione di comportamenti che vede, da un lato, la resistenza
autoescludente di sistemi locali che difendono la propria identità attraverso
la chiusura, la mancanza di innovazione e di relazione, e dall’altro la corsa
competitiva dei sistemi locali che sfruttano e snaturano il proprio patrimonio
nell’ansia di posizionarsi verso l’alto in un’ottica competitiva fatta di
regole esogene che dalla scala planetaria giunge a contaminare tutti i livelli
territoriali.
La costruzione di una società locale è un progetto da costruire, non un dato
esistente in natura né un’eredità da raccogliere e preservare. Una parte non
secondaria di questo progetto è già in marcia, e prende forma nella tessitura
lillipuziana di pratiche che vivono e trasformano il territorio con uno sguardo
nuovo ed un diverso rispetto per l’uomo, l’ambiente e le loro interazioni.
Oggi, molti di questi movimenti di trasformazione sono consapevoli della loro
forza di rottura e questo li rende capaci di farla accettare e valorizzare
all’interno di nuovi rapporti di collaborazione con le istituzioni, altri sono
portatori di progetti impliciti che necessitano di trovare forza politica e
coesione per potersi sviluppare. Per far questo, ‘raccontarsi’ ed essere
‘raccontati’ può risultare fondamentale: per se stessi (per acquisire forza e
consapevolezza) e per gli altri, che dal dialogo con luoghi e sperimentazioni
diverse potranno trarre nuova linfa vitale per arricchire i loro percorsi.
La ricerca a cui si accenna
in questo documento si propone di dare una mano a raccontare esperienze
innovative che stanno prendendo forma su territori diversi. Spera così di
contribuire alla trasformazione delle pratiche di governo locale, in coerenza
con le direttrici tracciate dalla Carta del Nuovo Municipio e dalla successiva
Carta di Intenti, che costituisce allegato fondamentale dello Statuto
dell’ARNM.
I docenti e ricercatori che
l’hanno promossa puntano a raggiungere questo obiettivo generale, attraverso
due strategie complementari:
1)
Individuando, esaminando e facendo conoscere (in maniera sistemica ed
articolata) esempi di sperimentazione di solide relazioni tra istituzioni,
movimenti sociali, abitanti e produttori locali, che rappresentino valore
aggiunto per la costruzione di politiche e progetti mirati all’autosviluppo
locale, attraverso la costruzione di processi inclusivi.
2)
Suggerendo ipotesi e modalità di ‘mappatura’ dei soggetti locali che
possono connettersi e convergere nell’attivazione di laboratori territoriali
sperimentali di sviluppo locale autosostenibile, convergendo a disegnare reti
cooperative non gerarchiche di autoaiuto e filiere di produzione/scambio
centrate sulla valorizzazione delle risorse e dei saperi locali, sulla
protezione attiva dell’ambiente, sulle pratiche di cura del territorio, sulla
riduzione dell’impronta ecologica, sulla riscoperta del senso d’appartenenza ai
luoghi e sul rinnovarsi di identità condivise frutto di un dialogo costruttivo
e reinterpretativo con i modelli socioculturali di lunga durata, nel contesto
di un sistema aperto di relazioni e di scambi con l’esterno.
L’Atlante in costruzione si propone di
contestualizzare le diverse pratiche esaminate, mappando le peculiarità e gli
elementi di quadro che le rendono intelligibili ed esplicitando i fattori di
innovatività in termini di metodi, contenuti ed esiti (sia attesi che non
preventivati).
Che cosa ricerchiamo?
Fin da subito la ricerca
ha rilevato la necessità di non di circoscrivere i propri interessi ad un unico
campo di esperienze, con la consapevolezza che chiunque lavori sulla
complessità non può che partire dalla complessità, e ha il dovere di rilevare
articolazioni e connessioni talora impensabili che possano produrre cambiamenti
consimili a partire da approcci, soggetti e luoghi differenti.
Così, si è proceduto per
gradi, definendo innanzitutto il macro-obiettivo di nostro interesse: esperienze e pratiche dove
siano identificabili forme innovative di collaborazione tra tessuti sociali
(nei loro diversi gradi di autorganizzazione) e istituzioni locali o
comprensoriali. Si è anche sottolineato che il centro
dell’analisi volevano essere soprattutto gli esempi caratterizzati
dall’attivazione di percorsi di democrazia partecipativa che affianchino e
arricchiscano il costruirsi delle politiche e dei progetti territoriali, e che
il livello di collaborazione tra istituzione e tessuti economico-sociali può
essere avanzato o ancora in fase solo ‘potenziale’. Per quanto concerne
l’origine delle pratiche, si è ritenuto positivo prendere in considerazione sia
percorsi autoprodotti a partire ‘dal basso’ sia processi messi in atto o
fortemente sostenuti da amministrazioni locali, anche con l’ausilio di
strumenti innovativi di ambito regionale o sovraregionale (contratti di
quartiere, agende 21l, patti territoriali, GAL dei programmi Leader, ecc.).
L’importante è che esse mettano comunque insieme attori territoriali diversi, con
un’ottica mirata ad attuare interventi concreti di trasformazione del
territorio o della società locale.
Per perseguire questi propositi si è dovuta chiarire
la nostra accezione del vastissimo concetto di ‘pratica’, in modo che
rispondesse ai nostri obiettivi di analisi. La abbiamo definita come insieme
di interrelazioni propositive in atto in ambiti diversi della gestione
amministrativa, della costruzione di politiche di cittadinanza inclusive
centrate sull’accoglienza delle differenze, della fornitura di servizi, della
produzione economica e delle sue interazioni con il paesaggio naturale e
costruito, degli scambi di beni e servizi, della produzione sociale di cultura
e informazione, della trasformazione dei modi dell’abitare e dell’uso degli
spazi pubblici, di riduzione dell’impronta ecologica ecc…
Geograficamente, l’emergere e il distribuirsi delle
esperienze sui diversi territori risulta un fattore molto interessante da
osservare, interrogando gli osservatori con quesiti sulle ragioni per cui esse
si concentrano o si disperdono in specifici ambiti geografici.
Per motivi solamente pratici, la rilevazione ha
preso avvio dalla disamina della realtà italiana, appoggiandosi anche ai ‘Nodi
territoriali’ dell’Associazione del Nuovo Municipio, che hanno preso
consistenza negli ultimi mesi. L’obiettivo resta quello di ampliare
successivamente l’orizzonte dell’analisi al panorama euromediterraneo,
costruendo in parallelo un quadro sinottico dei diversi contesti territoriali,
normativi e istituzionali in cui ogni pratica si inserisce, per comprendere al
meglio il grado di innovatività di cui essa può ritenersi portatrice.
Criteri di ricerca
Per non moltiplicare
all’infinito l’universo dell’analisi, la ricerca ha preso a riferimento la
Carta del Nuovo Municipio e il successivo Documento di Intenti, identificando
alcuni criteri per l’individuazione delle esperienze di cui approfondire la
conoscenza. L’idea – esposta nel rapporto d’inizio attività distribuito
all’Assemblea Costituente di Empoli – era quello di procedere per gradi,
pervenendo ad una prima indicazione di pratiche che possano essere considerate
innovative in rapporto agli approcci, ai percorsi e/o agli esiti che
propongono. Da queste, è stato possibile individuare ulteriori criteri che
hanno arricchito la lettura delle esperienze stesse e favorito l’individuazione
di altri esempi significativi.
Gli ambiti di interesse finora individuati – da
mettere sempre in
relazione con l’insieme degli attori partecipanti ai processi e con
l’indicazione delle tempistiche e dei gradi di continuità e durata delle
esperienze - sono
assunti come ipotesi per filtrare e orientare la lettura sinottica delle
esperienze via via rilevate dal Gruppo di Ricerca e da chi vorrà collaborare
con esso. Pur passibili di essere arricchiti e integrati nel tempo, essi sono
così riassumibili[1]:
1)
Esperienze centrate sulla costruzione di elementi di empowerment
delle comunità locali, tanto più se integrate e in grado di proporre alla discussione
pubblica temi innovativi (la produzione sociale di cultura, informazioni, beni
e servizi; l’elaborazione di nuovi stili di vita centrati sui concetti di
sostenibilità ed autosostenibilità dello sviluppo; la trasformazione
socialmente prodotta degli spazi urbani ed extraurbani; l’attivazione di
filiere produttive locali e di economie solidali; la tendenziale uscita delle
imprese a valenza etica da ambiti di ‘nicchia’, ecc.);
2)
Esperienze che investono sulla costruzione di nuovi indicatori dello
sviluppo,
favorendo negli abitanti una lettura del territorio centrata sul ‘ben vivere’
piuttosto che sui tradizionali parametri economici, e promuovendo nuove
culture della conoscenza e della valutazione dei territori che si connettano al
modificarsi delle politiche pubbliche in una direzione più attenta all’emergere
dei bisogni e al rafforzarsi del contributo attivo alle decisioni delle fasce
di soggetti deboli o ‘insorgenti’;
3)
Esperienze riconducibili ad un cambiamento culturale
emergente
che a stili di vita consumistici contrappone modalità di produzione, scambio e
consumo che trovano la propria definizione nel concetto di autosostenibilità
e che promuovono la riduzione dell’impronta ecologica.
4)
Pratiche dove l’esame della profondità territoriale (attraverso processi di
condivisione pubblica del dibattito sui valori territoriali, l’identità e il
senso di appartenenza) punta alla costruzione di veri e propri ‘statuti dei
luoghi’ che orientino le azioni di trasformazione territoriale a partire da un autoriconoscimento
del patrimonio e dei saperi locali da parte degli abitanti.
5)
Esperienze centrate sulla costruzione di reti di relazione e di
scambio solidale (economico e culturale) che connettano sistemi locali diversi – contigui o lontani
- definendo il ruolo del Nuovo Municipio entro un orizzonte spazio-temporale
più vasto, che contempla la costruzione di pratiche di ‘globalizzazione dal
basso’ che annodino i fili dei processi di resistenza e di “liberazione” dalle costrizioni
delle reti lunghe della globalizzazione a progetti di costruzione di un ‘nuovo
mondo possibile’.
La discriminante comune a tutte le pratiche censite
è la presenza di ‘effetti di luogo’, ovvero di un’incidenza delle stesse
pratiche sul trasformarsi del territorio, dell’ambiente e degli spazi di
relazione o di potere.
Lettura e racconto in un’ottica plurale
La società
locale non si inventa, ma cresce valorizzando le energie virtuose e le nuove forme del
lavoro già presenti sui territori. Il fare società locale è incessante crescita
della tela di ragno di reti civiche fra i soggetti insorgenti più disparati:
gruppi etnici, donne, bambini, associazioni, anziani, gruppi di volontariato
che ritessono spazio pubblico nella città, centri sociali, nuovi agricoltori
che producono beni pubblici (qualità ambientale, paesaggio, economie locali),
produttori che valorizzano l’ambiente e le culture locali, ecobanche e commerci
solidali. Fare società locale vuol dire connettere l’esplosione di
frammenti puntiformi e di energie innovative che già agiscono sul territorio
facendoli precipitare sinergicamente in uno stesso luogo o in reti di luoghi
diversi, e stimolandoli a costruire insieme scenari condivisi di futuro.
Per fare questa connessione è importante saper mettere concretamente
l'accento sulle "cose" e sulla materialità del "fare",
senza - al contempo - disperdere il valore delle "parole" e della
capacità di "fare racconto", cioè di "tramandare
memoria". L’ambizione della nostra ricerca – che condividiamo con
gruppi, riviste e siti web che cercano ogni giorno di raccontare cambiamenti in
atto sui territori locali – è quella di stimolare il costruirsi di ‘nuove
narrazioni’.
Il contributo che con questa ricerca si può offrire
è quello di aiutare chi vuole raccontare pratiche innovative che ha vissuto o
vive da abitante o da amministratore, ad inserirsi in un processo di ‘messa a
sistema’, di dialogo e di confronto tra sperimentazioni diverse, che possa
servire a valorizzare ogni esperienza, fornirle idee, suggerire legami tra
soggetti che, pur possedendo obiettivi consonanti (difesa degli interessi
comuni e dell’ambiente, inclusione dei più deboli, trasformazione dei modi
della politica, ecc.) finora non si sono mai incontrati o non hanno mai pensato
di poter collaborare.
Il compito non è semplice, e
per farlo ci vogliono perseveranza ed inventiva. Lo avevamo intuito e
dichiarato nel documento distribuito ad Empoli l’8 novembre, e l’avvio della
prima fase della ricerca ce lo ha confermato. La ricerca-azione non è un
impegno semplice, perché di solito chi agisce tende a sbilanciarsi sull’azione,
e a dedicare poco tempo alla ricerca e al racconto di quanto sta sperimentando,
dimenticando che produrre memoria è fondamentale per non ricadere in errore,
come per trovare nuove energie da coinvolgere nel proprio progetto.
Affiancarsi alle esperienze
innovative, per osservarle in maniera coinvolta, richiede pazienza e
perseveranza. Ma il problema non è solo reperire informazioni o stimolare alla
riflessione chi sembra concentrato soprattutto sull’azione, magari a rischio di
sentirsi un intralcio allo svolgimento di un’esperienza. C’e’ un altro
problema, che discende dalla pluralità e multiformità della società e che – se
vogliamo - è più uno stimolo che non un limite: la difficoltà di raccontare, e
di raccontare in modo confrontabile ed omogeneo (seppur non omogeneizzante)
interventi, luoghi e persone che sono fra loro molto diverse, che sono in una
fase temporale dissimile delle loro sperimentazioni e che hanno tempi e
modalità difformi di pensarsi, di descriversi, di reagire a come gli altri li
vedono o li raccontano.
Anche di questo eravamo
coscienti quando il Gruppo di Ricerca presentò a Empoli le prime prove di
descrizione dei casi ritenuti più interessanti, realizzate attraverso alcune
schede di censimento che intendevano proporsi come
strumento di confronto e scambio tra percorsi e ipotesi di lavoro differenti. Il dibattito nel gruppo di
lavoro ‘Università e ricerca’ dell’ARNM ha evidenziato la necessità di
prevedere una gamma più ampia di strumenti descrittivi in grado di rispondere
ad esigenze diverse di rappresentazione, autorappresentazione e comunicazione
delle differenti sperimentazioni. È quindi sulla molteplicità degli strumenti
di lettura e censimento che abbiamo basato il periodo di ricerca intercorso tra
le due assemblee dell’ARNM.
Metodologia di schedatura e
rappresentazione.
A partire dai cinque
principi-guida per l’individuazione delle esperienze da analizzare, il Gruppo
di Ricerca ha adattato e raffinato alcuni degli strumenti già proposti per un
censimento dei casi che offrisse un minimo grado di uniformità di lettura e
comparabilità, e gli ha affiancato altre modalità di rappresentazione e
catalogazione; cosicché attualmente l’Atlante va prendendo forma
affiancando i seguenti livelli diversi di restituzione dell’analisi:
1) Tipologie differenti di Schede
di rilevamento, pensate come strumenti-base di un archivio informatizzato
e interattivo di pratiche. L’impostazione mira ad offrire uno
strumento omogeneo di censimento al contempo articolato ma di semplice lettura.
Pertanto si compone di domande dirette, alcune delle quali prevedono una
risposta aperta, mentre altre sono seguite da alcune ipotesi di risposta
‘chiusa’. Le schede – caratterizzate da una struttura di tipo ipertestuale, che
però può essere facilmente compilata anche in formato cartaceo e
successivamente informatizzata dal Gruppo di Ricerca che gestisce l’archivio -
hanno livelli di complessità e articolazione diversi:
1a) Le schede
esplorative sintetiche dei casi sono uno strumento di autorilevazione e
autodescrizione di esperienze istituzionali o originatesi dentro i tessuti
sociali. Possono essere compilate da attori in esse coinvolti, oppure possono
servire a ‘descrittori esterni’ ai processi indagati, ma che ne abbiano una
buona conoscenza. Servono da primo approccio ad esperienze locali che mettano
in campo una o più pratiche innovative, che potranno essere successivamente
approfondita con interviste e materiali di corredo (cfr. esempi in allegato)
1b) Le schede di
secondo livello cercano di stimolare l’approfondimento di singole
pratiche (in particolare processi decisionali partecipativi), lette singolarmente e
riassunte in una ‘scheda guscio’ che le mette in relazione all’interno
di un’unità di luogo, cercando di capire come esse si relazionino tra di
loro producendo valore aggiunto. Si può trovarne un esempio in allegato
al presente documento.
2) Le interviste (ad
amministratori, coordinatori di reti di associazioni, portavoce di movimenti,
ecc.) costituiscono una modalità di restituire il punto di vista di un attore
centrale di un’esperienza che mette in campo diverse pratiche interessanti ai
fini della ricerca, cercando di dar conto di una complessità che le singole
schede – per la loro stessa natura - non basterebbero a restituire. Servono a
cogliere l’approccio strategico ad un territorio, laddove pratiche embrionali e
dichiarazioni d’intenti convergono a disegnare una nuova cultura del rapporto
tra società e territorio, coscientemente perseguita (cfr. esempi in allegato).
3) I ‘gusci narrativi’
sono forme di descrizione di un’esperienza più ‘raccontate’, dedotte da
interviste plurime e corredate di schemi grafici, materiali informativi, mappe
ecc. che cercano di mettere a fuoco – in maniera ipertestuale – l’incrociarsi
su uno stesso luogo di molteplici pratiche, spesso agli albori,
impercettibili o così peculiari da essere difficilmente riducibili ai canoni
descrittivi richiesti dalle schedature (cfr. esempi in allegato).
4) Gli indirizzari
rappresentano un modo di individuare soggetti ed attori territoriali che –
entro una o più unità amministrative – presentano caratteristiche comuni o
complementari che potrebbero farli convergere nell’attivazione di laboratori
territoriali sperimentali di sviluppo locale autosostenibile.
Rispetto a quest’ultimo tipo
di analisi, va sottolineato che una forma di rilevamento ‘a tappeto’ e non
finalizzata rivestirebbe ben poco interesse, e andrebbe soggetta ad un rapido
invecchiamento dati i ritmi e le ondate con cui le innovazioni territoriali mostrano
di succedersi e articolarsi negli ultimi anni. In tale ottica, l’esempio di
visualizzazione di un indirizzario su singoli territori di riferimento (nel
caso proposto in allegato vengono visualizzate alcuni interessanti soggetti
territoriali ed alcune pratiche messe in atto in Toscana) vuole essere un
richiamo alla necessità che ogni ambito locale censisca e promuova
l’integrazione dei fermenti che si muovono nel proprio territorio, con la
finalità non certo di restituirne un immobile quadro conoscitivo, ma di
riconoscere ‘circuiti potenziali’ e mettere in contatto attori diversi per
produrre valore aggiunto territoriale e stimolare il farsi
di società locale.
Verso un orizzonte di ricercazione
Nei suoi primi mesi di vita,
la ricerca ha evidenziato un esito imprevisto. L’interrogazione di attori
locali, amministratori e cittadini per pervenire ad una più realistica analisi
di primo livello delle pratiche ha contribuito non solo all’approfondimento di
forme di autoriflessione da parte degli attori coinvolti nelle trasformazioni
descritte, ma anche all’attivarsi di reti tra attori che non si conoscevano o
ignoravano di poter lavorare proficuamente insieme nel perseguimento di
obiettivi comuni.
È a partire
dall’osservazione delle potenzialità messe in valore da un meccanismo di
conoscenza diffusa e collettivamente prodotta, che chiediamo a quanti
leggeranno questo documento di segnalarci singole pratiche o esperienze
concrete che rispondano ai criteri sopra esplicitati, scrivendoci all’indirizzo
e-mail (partecip_azione@tiscali.it)
o inviandoci materiale - che sarà vagliato in coerenza con i principi e la
metodologia sopra esposta - al seguente recapito, con la dicitura: Elena Frascaroli
e/o Francesca Rispoli e/o Giovanni Allegretti, c/o LaPEI - Dipartimento di
Urbanistica e Pianificazione del Territorio, Via Micheli 2 – 50121 Firenze,
Italia.
Questo documento, così come il dibattito che punta a
stimolare, vuole essere aperto a suggerimenti e indicazioni da parte di ogni
soggetto che si riconosca nei principi della Carta del Nuovo Municipio e
intenda contribuire ad individuare ulteriori criteri ed esempi, o a descriverli
direttamente usando uno degli strumenti appena richiamati.
Da parte nostra, ci preme
sottolineare che la ricerca che abbiamo avviato (e che è destinata ad un
entusiasmante cammino fatto di tempi lunghi e – ci auguriamo – di crescente
capacità di comprensione delle esperienze) non intende avere un mero valore
conoscitivo. Semmai, vuole essere un momento di ‘riconoscimento’ di fermenti
costruttivi che si muovono sui diversi territori del nostro come di altri
paesi.
L’auspicio che ci facciamo
(che è prima di tutto un ambizioso obiettivo) è che la mappatura territoriale
delle pratiche serva a dare un contributo ed uno stimolo in più all’attivazione
di laboratori territoriali sperimentali dove le Amministrazioni che
fanno parte della Rete del Nuovo Municipio – come altre che ancora non vi
aderiscono – si incontrino con la creatività sociale degli abitanti e della
società civile organizzata per costruire nuovi scenari di riferimento e dar
forma a nuovi progetti di futuro, nel solco dei principi dell’autosostenibilità
dello sviluppo e della valorizzazione/protezione attiva di risorse, saperi e
patrimoni sociali locali.
Riflessioni sui ‘Cantieri in corso’
Nel seguito, cercheremo di
raggruppare alcune riflessioni che emergono dal quadro di esperienze che il Gruppo
di Ricerca ha iniziato ad esaminare. Lo faremo in riferimento a tre grandi
‘orizzonti di senso’ che abbiamo riconosciuto, e dove pratiche diverse e
complementari spesso si incontrano e convergono nel dar forma ad esperienze
complesse e articolate.
Vale pena rilevare come
finora l’esistenza di limiti o punti di debolezza nelle diverse pratiche
esaminate sia spesso percepito dagli stessi promotori e partecipanti come una
risorsa: che testimonia del carattere di avanguardia e di rottura che molte
esperienze hanno, evidenziando al contempo (seppur sovente a contrariis)
le sfide da raggiungere come anche le risorse e i correttivi su cui puntare,
oltre che i nuovi soggetti territoriali che è necessario includere per
arricchire o addirittura invertire il segno delle esperienze stesse.
Infine, una necessaria
avvertenza: il presente documento non è che un rapporto intermedio,
esemplificativo di alcuni obiettivi e metodologie della ricerca. Pertanto
l’incompletezza dei censimenti, così come delle rappresentazioni e di alcune
schedature proposte per l’Atlante è da leggersi come il segnale di un
magma incandescente e crescente di fermenti costruttivi che vanno attraversando
il nostro territorio.
1. E’ tempo di bilanci
1.0. Premessa
Il diffondersi della conoscenza in Italia
dell’esperienza di Porto Alegre (anche grazie ai Forum Sociali Mondiali) ha
portato il tema del Bilancio Partecipativo al centro della discussione sulle
innovazioni sperimentabili nell’ambito del rinnovamento della gestione delle
trasformazioni territoriali. Il dibattito ha avuto più livelli e più piani di
sviluppo. Mentre l’approfondimento teorico sulle molte esperienze
latinoamericane e sulle prime emulazioni europee procedeva attraverso
pubblicazioni, seminari, tesi e corsi di formazione, ha preso forma un’ondata
di sperimentazioni operative che – con le loro enormi differenze, i loro
diversi gradi di ‘autarchia’ e i loro molteplici modi di riferirsi (o di non
riferirsi) alle esperienze internazionali – hanno notevolmente arricchito il
dibattito politico/accademico, per di più ampliandone la portata ad una più
vasta congerie di pratiche e di significati che mettono al centro il tema dei
‘bilanci’ nelle sue plurime accezioni. Parlare oggi di Bilanci Partecipativi,
di Bilanci Sociali o di Bilanci di Giustizia è certo trattare temi tra loro
diversi, ma è anche affrontare problemi complementari, a partire da punti di
vista consonanti. Non è un caso che – infatti – alcune amministrazioni locali
comincino a mettere in stretta relazione le sperimentazioni di Bilancio
Partecipativo con la costruzione di modi complessi e ‘finalizzati’ di leggere
le proprie politiche e le contraddizioni dei propri territori di riferimento
che prendono il nome di Bilanci Sociali. Mentre – tra le pratiche emergenti dai
tessuti sociali organizzati – la riflessione quotidiana dei Bilanci di
Giustizia comincia a trovare una saldatura con iniziative come la campagna
‘Sbilanciamoci’, che puntano ad ampliare la coscienza sociale e politica di
ogni cittadino attraverso riflessioni sugli sprechi, la pervasività dei modelli
consumistici e l’opportunità di adeguare gli stili vita agli obiettivi della
sostenibilità dello sviluppo. Nella piena coscienza che la causa dello sviluppo
sostenibile è oggigiorno ancora un ‘soggetto debole’, sia all’interno delle
politiche pubbliche sia nella vita quotidiana della maggior parte dei
cittadini, e che la sua affermazione non può legarsi solo ad azioni
istituzionali, a divieti o a normative finalizzate a costruire singoli ‘atti’
che ne rispettino gli obiettivi prioritari, ma ha la necessità di un’adesione
consapevole di tutti gli abitanti e i produttori del territorio ai suoi
principi di fondo, a partire da un ‘volontarismo quotidiano’.
1.1. Bilanci Partecipati o Bilanci Partecipativi?
Un interessante (quanto recente) ambito
di sperimentazione politica, è quello dei primi percorsi italiani di Bilancio
Partecipativo (B.P.), tra loro molto diversi ma tutti centrati sull’idea di
portare avanti un’autoeducazione alla democrazia della cittadinanza, attraverso
forme di co-decisione tra abitanti ed istituzioni relativamente ai nuovi
investimenti strategici per il territorio. In realtà questi due obiettivi non
sono sempre espliciti e coesistenti nelle diverse esperienze del nostro Paese,
che accompagnano un movimento di ampiezza europea (esteso anche a parti
dell’India e ad alcuni paesi dell’Africa centrale) che trova il proprio
riferimento ideale nelle sperimentazioni ormai quindicennali di molte città
latinoamericane.
C’è uno strano indicatore linguistico
che funge quasi da ‘discriminante’ tra due diverse famiglie di B.P., che
riflettono approcci molto diversi alla partecipazione popolare in tema di
scelte di natura economico-finanziaria. Chi voglia averne una panoramica può
inserire alcune parole chiave in un motore di ricerca sul web per rendersene
conto facilmente.
Ad oggi esistono, infatti, una
quindicina di esperienze di ‘Bilancio Partecipato’ e un terzo circa di
esperienze di ‘Bilancio Partecipativo’, in fasi diverse di
sperimentazione e dove si evidenziano grosse trasformazioni strutturali
avvenute all’inizio del 2004, a seguito della valutazione di limiti ed
opportunità di arricchimento di esperienze-pilota partite già a cavallo tra il
2002 e il 2003.
Le esperienze di Bilancio Partecipato si
assomigliano molto tra di loro. In genere rappresentano il nome dato a
‘momenti’ di partecipazione cittadina inseriti in processi tradizionali di
costruzione tecnica dei documenti di bilancio pubblico. Questi momenti hanno
declinazioni differenti (puramente informative, o anche di ascolto dei bisogni)
ma non prevedono procedure ‘decisionali’, o le limitano a votazioni su fondi
contingentati per la realizzazione di una o due opere pubbliche. Per lo più
prendono forma nell’ultimo trimestre dell’anno (all’avvicinarsi delle scadenze
di chiusura del bilancio e dei piani di investimento), attraverso assemblee di
quartiere o rione, e percorsi itineranti dei Sindaci e delle Giunte municipali
sul territorio amministrato. In qualche caso (come a San Pier Maggiore, BO) si
sperimenta l’affiancamento di assemblee d’area e di raggruppamenti per
categoria, con orari differenti ed anche ripetuti in uno stesso giorno, per
intercettare gruppi diversi di cittadini e consentire la maggior partecipazione
possibile.
Particolare (perché si sottrae ad un
rischio di eccessiva episodicità dei percorsi di ascolto della cittadinanza) è
l’approccio scelto dal Comune di Melegnano (MI), che a metà 2003 ha predisposto
un Documento di Programmazione Economico-finanziaria, per poter dilatare i
tempi della discussione con i cittadini e darle continuità attraverso la
costruzione di una base di ipotesi economiche di quadro su cui discutere per
fasi successive, seppur puntando essenzialmente alla ‘anticipazione dei
tempi di redazione’ del bilancio, e a alla creazione di ‘un’immagine
positiva dell’Amministrazione’. In questo caso è risultato blando l’uso
degli strumenti informatici, limitati all’apertura di una Email su cui
convogliare i suggerimenti. Del resto, il caso di Vignola (MO) – dove un
progetto di 250.000 euro da inserire nel bilancio 2004 è stato scelto dai
cittadini tra quelli precedentemente indicati dagli abitanti stessi – mostra
che lo strumento informatico non può sostituire, ma al massimo complementare, i
momenti assembleari di incontro vis-a-vis (solo il 24% dei 1038 votanti
lo ha fatto per via elettronica). Non solo: il caso di Vignola (dove il
progetto scelto ha avuto il 53,4% dei voti elettronici, soprattutto di giovani)
mostra anche i rischi di affidarsi a forme di e-democracy quando parallelamente
non vengono impostate politiche di promozione dell’uguaglianza dell’accesso ai
mezzi tecnologici, senza le quali si può finire per sbilanciare le decisioni
territoriali a pro di chi ha più mezzi e ‘connessioni’ con la modernità.
Nel complesso, nonostante le differenze,
i Bilanci Partecipati tendono per lo più a fondarsi sull’ascolto selettivo
degli umori popolari da parte delle Giunte Municipali (vedi il caso di Sala
Baganza, PR o Modugno, BA), al massimo mettendo in votazione piccoli
‘portafogli’ di spese o singoli progetti che possono accedere ad un contributo
limitato. Quella dell’utilizzo del termine ‘partecipato’ in accezione
‘minimalista’ rispetto al significato iterativo del termine ‘partecipativo’
(che evidenzia in maniera quasi onomatopeica la strutturazione ciclica e
continuativa dei percorsi di partecipazione) non è ovviamente una regola
assoluta, ma appena una tendenza rivelatrice. Ci sono, infatti, casi – come
quello di Lodi – in cui l’avvio di un processo di Bilancio Partecipativo ha
caratteristiche di sperimentazione ‘timida’, configurandosi più come
coinvolgimento diretto dei cittadini nel decidere su uno o due temi, che non
mettere in discussione priorità generali e redistribuzioni di investimenti sul
territorio.
In alcuni casi i Bilanci Partecipati
sono appena dei riferimenti ideali, a cui ancora non si accompagnano
trasformazioni concrete delle politiche di bilancio. Altrove sono ‘ipotesi di
lavoro’, magari supportate da mozioni consiliari a cui – si spera – non seguirà
solo una fase di inchiesta o di formazione, ma applicazioni operative (è il
caso delle dichiarazioni d’intenti di alcune Province, come Genova, Livorno e
Reggio Calabria, o di Comuni come Collegno). Peraltro, accade anche ad alcuni
processi di Bilancio Partecipativo di non avanzare molto nella sperimentazione,
ancorché formalmente proclamati attraverso l’istituzione di appositi
assessorati o di delegati del Sindaco (Pescara, Roma, Venezia, Castellammare di
Stabia o Nocera Inferiore, SA). In tali casi, a tramutare i Bilanci Partecipativi
in vuoti simulacri sono la mancanza di una cultura o l’inesperienza in tema di
innovazione istituzionale e democrazia allargata, altrove l’assenza di reale
volontà politica o una volontà ‘residuale’, confinata in singole forze della
coalizione ma incapace di divenire ‘progetto comune’. Sovente, questi fantasmi
di Bilanci Partecipativi ‘in potenza’ attendono di valutare gli effetti di
rivitalizzazione di percorsi storici come le Consulte Tematiche o i Consigli di
Quartiere (Monza, Piacenza) ma non fanno ancora far propria la necessità di un
ampliamento del coinvolgimento popolare e della costruzione di ‘nodi centrali’
di rinnovamento del governo territoriale.
Non è però costruttivo demonizzare
queste esperienze ‘soft’ che stanno oggi prendendo piede: qualora – infatti –
le attuali sperimentazioni intendano ‘maturare’ ed ‘ampliarsi’ divenendo un
volano per la strutturazione di una crescita del coinvolgimento degli abitanti
a livello decisionale, esse meritano rispetto. Soprattutto perché molte stanno
testando in maniera onesta in quale misura il contributo dei propri
concittadini alla definizione delle politiche possa costituire una risorsa di
cui – soprattutto a partire dalla nuova legge elettorale del ’93 – ci si è
spesso privati in maniera pregiudiziale, limitando i contatti alla costruzione
di consensi piuttosto che alla produzione di ‘senso in comune’ (con-senso).
Rari appaiono oggi i percorsi che non
usano strumentalmente il riferimento (che sia o meno terminologicamente
corretto) al celebre modello sudamericano. Tra questi vi sono il caso di
Bellusco (con il processo ‘Un Bilancio con tante idee’) e di Vimercate
(MI), dove il percorso chiamato ‘I cittadini scrivono il bilancio’ ha
colto la necessità di mettere l’accento su uno dei principi base del modello
d’oltreoceano (la centralità dei cittadini nel momento della stesura dei
documenti). Qui il nome-slogan (scelto per identificarlo dentro i quindici
giorni della Settimana della partecipazione svoltasi nel settembre 2003)
focalizza il bilancio non come soggetto, ma come oggetto del percorso di
trasformazione delle politiche pubbliche. E coglie appieno il rischio
dell’isolamento comunicativo che il bilancio – in quanto percepito come noioso
ed inavvicinabile processo tecnico – può subire, anche se messo al centro di
processi di discussione pubblica. In tal senso, gli spazi semi-aperti di
discussione di alcune opzioni sulle opere pubbliche ritenute prioritarie
(vincolate ad un tetto massimo di spese prefissato) sono stati messi a rete con
i percorsi del tavolo di Agenda 21, con le Consulte di Quartiere e il Piano di
Zona, anche per attenuare l’impressione di un percorso episodico,
contestualizzandolo all’interno di attività-quadro che hanno maggiore
continuità temporale. Importante è che a Vimercate sia stato reso pubblico un
documento finale di valutazione del percorso, un onesto reportage su debolezze
ed opportunità della prima sperimentazione, che cerca una sua collocazione
ragionata nell’ambito delle politiche pubbliche, volendo dichiaratamente evitare
di essere percepita come semplice ‘occasione di sfogo per i cittadini’
piuttosto che come uno spazio di negoziazione e costruzione condivisa di
scelte. Tra l’altro il documento ha avviato l’apertura di un Ufficio Servizi e
Partecipazione e di una pagina WEB che mette a disposizione dei cittadini
statistiche sul territorio, progetti e dati di monitoraggio delle attività,
affermando programmaticamente che “ci si può esprimere solo su ciò che si
conosce, e che ci si esprime con efficacia solo su ciò che si conosce bene”.
Qualche analogia con questo approccio la
mostra il caso del Bilancio Partecipativo di Grottammare, il più antico e
‘autoctono’ tra gli esperimenti italiani, visto che data al ’95 e solo da due
anni ha iniziato a proporre contaminazioni positive con esperienze di altri
territori. Oggi, il processo si chiama ‘Grottammare Partecipativa’ e non
ingloba solo le due sessioni strutturate di discussione del bilancio,
consistenti in assemblee svolte consecutivamente nei 6 rioni cittadini, ma –
fin dal nome – mette l’accento su un’integrazione programmatica della
discussione delle scelte di bilancio con altri percorsi co-decisionali, come
l’Agenda 21 (che oggi realizza inchieste importanti a supporto della crescita
dei percorsi di partecipazione, assumendo anche un ruolo di monitoraggio e
appoggio scientifico agli stessi) e – negli anni passati - il Piano Regolatore.
Va riconosciuto, infatti, che a Grottammare la partecipazione (fino a
quest’anno poco strutturata e raramente mostratasi capace di produrre memoria
del suo sviluppo temporale) ha avuto un forte peso sostantivo, sia incidendo
sugli strumenti urbanistici che sull’articolarsi delle formazioni politiche
locali. Tant’è che da 12 anni è una lista civica chiamata ‘Solidarietà e
Partecipazione’ ad amministrare la città, con risultati elettorali che
possono stupire se rapportati a quelli riscossi a Grottammare dalle varie
formazioni politiche tradizionali durante le elezioni nazionali. Questi
evidenziano, infatti, un’importante acquisizione dei cittadini nel saper
leggere e articolare il proprio giudizio sul governo del territorio, a seconda
delle diverse scale territoriali; così come la capacità degli abitanti di
ampliare lo sguardo oltre i propri confini è testimoniata dagli interessanti
progetti di cooperazione allo sviluppo messi in atto negli ultimi anni, letti
come opportunità di ‘contaminazione positiva’ e di arricchimento delle proprie
sperimentazioni di democrazia allargata. Non stupisce pertanto che il nome che
oggi l’esperienza di Bilancio Partecipativo di Grottammare ha assunto (in
parallelo ad un processo di strutturazione ed istituzionalizzazione delle
proprie conquiste democratiche) abbia una valenza ‘riassuntiva’ di pratiche
partecipative diverse fortemente radicate nel territorio, visto che sono anche
queste che (soprattutto a vantaggio dei cittadini immigrati e delle famiglie
residenti nei quartieri più recenti) hanno contribuito alla costruzione di
un’identità locale aperta al dialogo con l’esterno e con le sue sedimentazioni
storiche, come è ben descritto negli atti del primo incontro di lavoro e
confronto tra alcuni Enti Locali italiani che praticano il Bilancio
Partecipativo, ospitato il 14 febbraio 2004 proprio a Grottammare.
Tra le esperienze municipali più
interessanti di Bilancio Partecipativo c’è anche quella di Pieve Emanuele,
comune della cintura milanese che ha profonde assonanze con Grottammare per
quanto concerne le dimensioni e le sperimentazioni di processi partecipativi,
anche qui avviati con gradualità dal ’94 a seguito di un commissariamento del
Comune che rese necessaria la ricostruzione di un rapporto di fiducia tra
amministratori e cittadini. In questo caso, il Bilancio Partecipativo ha un
preciso riferimento alla celebre esperienza brasiliana, in forma di omaggio politico
(come adombrato dal nome ‘Pieve Alegre’ dato all’insieme dei processi
partecipativi in atto in città). Ciò nonostante, la strutturazione del percorso
non imita ma emula criticamente i principi del suo ‘orizzonte ideale’,
adattandoli alle peculiarità del proprio territorio locale. Anche il taglio
dato all’esperienza è particolare, come rilevato da un documento del Programma
di Gestione Urbana dell’ONU servito da base per l’attivazione del programma
europeo URB-AL Rete 9: infatti, è servita ad una riorganizzazione della
struttura delle responsabilità amministrative intorno ad un progetto ‘forte’,
collegato all’Assessorato alla Cultura e alla Comunicazione, quasi a
rappresentare simbolicamente una volontà di cambiamento culturale irreversibile
nelle relazioni tra municipio e abitanti, perseguita attraverso un forte
investimento politico e la capillarità e multiformità dei percorsi
comunicativi.
L’esempio di Pieve Emanuele illustra
bene le caratteristiche che la letteratura pone alla base dell’appartenenza di
un’esperienza autodenominatasi Bilancio Partecipativo al novero di quella
categoria di significato: punta, infatti, sulla partecipazione dei cittadini
non organizzati, stimola relazioni orizzontali tra gli abitanti (e non si
limita ad attivare solo relazioni verticali di dialogo con il Comune), mette in
gioco dispositivi decisionali innovativi, unisce momenti di riflessione a base
tematica e territoriale, e si presenta come strumento redistributivo attraverso
il superamento della mera consultazione dei cittadini a favore di forme
decisionali sull’identificazione delle principali priorità di spesa del
bilancio. A Pieve, la ‘messa a regime’ di questa capacità decisionale è stata
prevista come graduale e crescente, e si accompagna all’identificazione di due
fasi del ciclo partecipativo, la prima dedicata al rilevamento collettivo dei
bisogni, e la seconda in forma di tavoli di progettazione che discutono dei temi da mettere
in bilancio, proponendo progetti e identificando modalità di finanziamento che
creino sinergie tra forze e risorse di provenienza differente. Centrale è il
forte investimento sul monitoraggio dei partecipanti e delle loro motivazioni,
realizzato da un apposito Ufficio Partecipazione. Questo ha permesso, infatti,
di supportare dapprima l’avvio e poi il radicamento del processo, attraverso
strategie ‘adattive’ che da un anno all’altro fanno tesoro di quanto
precisamente osservato in precedenza. La stessa proposta della prima sperimentazione
biennale è maturata appoggiandosi su inchieste locali, e attraverso un periodo
sperimentale di pre-avvio in cui - nell’ultimo bimestre 2002 – il Comune ha
chiamato i cittadini a partecipare ad assemblee pubbliche mirate a dar forma ad
una prima ipotesi di processo. Dal momento in cui la sperimentazione è partita, si è individuato il
periodo di 2 cicli annuali completi (2003-2004) come lasso ‘di rodaggio’
dell’iniziativa, per verificarne e reindirizzarne presupposti, modalità
organizzative ed esiti. E va rilevato che i cambiamenti messi in atto nel 2004
– in parallelo ad una ‘statuizione’ più formale del processo in seno alle
istituzioni locali – sta producendo risultati interessanti sul cambio di
pubblico, supportata dall’integrazione con uno specifico processo di attenzione
alle questioni di genere e al coinvolgimento dei giovani, già destinatari di
progetti di inclusione sociale e di percorsi partecipativi nei settori delle
politiche giovanili e della scuola.
In qualche caso, i percorsi di
sperimentazione riguardano singole circoscrizioni cittadine, dove i problemi di
coinvolgimento degli abitanti nelle decisioni sono acuiti dall’incertezza sugli
effetti pratici delle scelte condivise, conseguente al fatto che il bilancio
dei quartieri è approvato a livello ‘centrale’ ed è quindi passibile di
emendamenti imprevedibili in fase finale. Per questo, spesso vi è una cautela
che prende corpo nel dare ai momenti di incontro soprattutto il ruolo di ‘base
di analisi per l’ottimizzazione delle linee-guida di mandato’ (Circoscrizione 2
di Torino), o nell’identificazione di singoli settori di sperimentazione della
co-gestione delle scelte (settore spese di manutenzione e rinnovo delle scuole
e delle loro pertinenze nel Quartiere 4 di Firenze, dal 2001), quando non si
traduce in vere e proprie ‘esperienze minimali’ come quelle della
Circoscrizione Carpenedo-Bissuola 9 di Venezia per l’approvazione di
un’iniziativa culturale promossa dai cittadini (settembre-novembre 2003).
Fa eccezione a questo panorama il
Municipio XI di Roma, che si giova di una sperimentazione-pilota che la
capitale sta portando avanti sulla base del Testo Unico 267/2000: quella del
decentramento rafforzato nelle sue prerogative decisionali di autonomia su
alcuni settori di spesa. La forza con cui da un anno il percorso di Bilancio
Partecipativo si sta radicando in alcuni tessuti (seppur non in tutti quelli di
un quartiere che conta 150.000 abitanti) è supportata da una forte volontà
politica della sua giunta, il cui presidente non ha esitato a legare il
rispetto delle priorità indicate dai cittadini al suo stesso mandato, per
vincere l’opposizione di una coalizione che vede nel processo partecipativo una
sorta di ‘nemico politico’ che confisca parte dei poteri degli eletti.
Pertanto, è oggi dalla base dei partiti (e non dai loro rappresentanti in
Municipio e in Comune) che sta giungendo il supporto ad un percorso
sperimentale che si accompagna ad un attento monitoraggio dei suoi partecipanti
per modificare le sue regole in maniera adattiva, in modo da creare un riflettersi
del processo nella struttura delle decisioni amministrative, e da crescere di
pari passo con i saperi e lo spirito costruttivo degli abitanti che vi
partecipano. Attualmente, sulla base del rilevamento di alcuni limiti
evidenziatisi nel 2003, la strutturazione del percorso sta velocemente
evolvendo. Ad esempio, si sta cercando di fermare il riprodursi di meccanismi
di delega tra abitanti e delegati popolari del Bilancio Partecipativo (eletti
in proporzione di 1 ogni 15 partecipanti di un rione presenti nei turni
assembleari), con la trasformazione dei delegati in semplici portavoce, che
mettono al centro del processo le assemblee territoriali dove si priorizzano le
principali voci da inserire nel bilancio del municipio. Interessante, in questo
caso, è anche il processo di statuizione delle regole del percorso, in procinto
di essere ufficialmente inserite nello Statuto dell’ente, in modo da poter
rappresentare un’eredità costante per il futuro, da mettere in relazione con
altri processi di coinvolgimento, come i Contratti di Quartiere e i Piani
Sociali di Zona. La candidatura del Presidente Smeriglio al Parlamento europeo
può rappresentare una proposta interessante, se dovesse attivare un percorso di
cortocircuito e saldatura tra l’istituzione locale e un livello sovrastatale di
riflessione, dove il tema della partecipazione non è mai stato preso in seria
considerazione,venendo schiacciato su un’accezione asimmetrica e non
‘circolare’ del principio di sussidiarietà. Una concezione che lascia poco
spazio di proposta alla società civile e ai livelli politici più vicini al
cittadino, nel momento in cui li carica di responsabilità sociali e scarica su
di loro i percorsi di fornitura dei servizi alla persona, specie per quanto
concerne le categorie più tradizionalmente emarginate (bambini, anziani,
immigrati, disabili).
In tale quadro, sarebbe interessante
osservare gli esiti dei fermenti sociali che ‘dal basso’ propongono da tempo a
molte amministrazioni locali l’attivazione di percorsi di Bilancio
Partecipativo, facendo leva sulle connessioni a rete che i Forum Sociali hanno
costruito negli ultimi 4 anni. Purtroppo, ad oggi, vi è un solo percorso
coronato da esiti concreti, fra i tanti e difficili tentativi compiuti per
attivare ‘dal basso’ esperienze di Bilancio Partecipativo, facendo pressione
sulla politica a partire dai tessuti sociali (invece che accogliendo la
proposta di istituzioni ‘illuminate’ desiderose di attivare processi di
co-gestione e di ‘empowerment’, o anche semplicemente alla ricerca di pacificazione
sociale o di rinnovamento della propria immagine). Il caso è quello di Vicenza,
città amministrata da una giunta di centrodestra finora sorda al tema del
coinvolgimento dei cittadini nelle scelte di pubblico interesse. L’esperimento
è stato promosso dal ‘Gruppo Bilancio Partecipativo’, un gruppo informale che
nel 2003 ha organizzato grandi assemblee popolari per far emergere
proposte, idee e critiche riguardanti la propria città e trasformarle in
mozioni da inviare in Consiglio Comunale. È proprio creando un asse
privilegiato di dialogo con numerosi consiglieri comunali, e aggrappandosi ad
una norma dello Statuto Municipale, che il gruppo sta faticosamente ottenendo
che alcuni cittadini possano presentare in Consiglio Comunale proposte
supportate dalla legittimazione sociale dei processi di autorganizzazione
popolare che le hanno fatte emergere e priorizzate.
Oggi, il numero delle amministrazioni locali
che costruiscono gradualmente le pre-condizioni per poter poi mettere in atto e
radicare processi di Bilancio Partecipativo, sta crescendo. E stanno
moltiplicandosi le sperimentazioni parallele di strumenti che facilitano la
comprensione dei percorsi decisionali di gestione economico-finanziaria e il
rapporto con le problematiche sociali e di genere.
Ad esempio, è ormai difficile contare le
Amministrazioni che producono versioni semplificate dei propri bilanci ‘a
consuntivo’ dove le voci di spesa siano raggruppate per luoghi o per temi in
modo da risultare più facilmente comprensibili. In Toscana, ad esempio, il
numero è in continua crescita, a partire da quelle che hanno lavorato per prime
su questo tema (Marradi, Dicomano, Scandicci, Firenze e Campi Bisenzio, che ha
anche una pubblicazione mensile del Comune che segue costantemente l’andamento
delle opere pubbliche per darne conto agli abitanti) e anche grazie alla
diffusione di software che – in automatico – riportano a fine anno le voci
aggregate in modo da poterle comunicare a lettori non specializzati nella
conoscenza delle tecniche contabili. Anche altrove vi sono esempi di bilanci
semplificati che raggiungono estrema chiarezza ed efficacia comunicativa,
spesso venendo corredati da grafici e glossari disponibili anche su Internet:
tra questi, solo a titolo esemplificativo, Rimini, Cento (FE), Massalombarda
(RA), Rovereto,Udine, Mogliano Veneto, Prarostino (TO), Trezzo d’Adda o Soveria
Mannelli (CZ), che addirittura – attraverso una password gratuita – permette di
addentrarsi on-line a leggere livelli diversi di comprensione dei programmi di
bilancio.
Se queste forme di rendicontazione più
trasparente e leggibile sono di solito ‘a consuntivo’ (e oltretutto sovente non
rispondono alle domande dei cittadini, potendo teoricamente anche risultare
‘omissive’ attraverso forme di aggregazione ‘di comodo’ delle voci di spesa),
si vanno diffondendo in Italia altre modalità di rendicontazione a ‘lettura
finalizzata’ e pre-progettuale, come quelle che esaminano i programmi di
legislatura o le politiche pubbliche in termini di compatibilità ambientale
(eco-bilanci), di equità ‘gender-oriented’ (bilanci di genere) o di incidenza
sociale delle scelte (bilanci sociali).
Questi ultimi, già diffusi in altri Paesi da parecchi anni con il
nome di Welfare Balance, rappresentano una variegata pluralità di esperienze dissimili,
accomunate da un’attenzione agli ‘effetti sociali’ delle scelte compiute nei
vari settori della pubblica amministrazione. Nati come frontiera avanzata
del marketing aziendale, e diffusisi sulla falsariga della rendicontazione
sociale delle imprese ‘non profit’ (fino ad essere sperimentati da Comuni come
Venezia, Terni, Bologna, Trieste, Copparo, Mola di Bari, Cesano Maderno,
Milano, dalle Province di Parma e Forlì, ecc.) essi raramente sembrano essere
riusciti a trovare indicatori sociali sintetici davvero efficaci (cfr. www.bilanciosociale.it).
I casi più interessanti restano quelli dove essi hanno assunto un valore
‘pre-progettuale’ di supporto o pre-condizione rispetto al Bilancio
Partecipativo. È il caso, ad esempio, di Venezia o del Comune di Castel San
Pietro Terme (BO). In quest’ultimo, lo strumento è stato concepito come
ricomposizione di una visione ‘unica e condivisa’ di soggetti istituzionali,
dipendenti pubblici e cittadini, e come base per la costruzione di un Piano
d’Azione Sociale che confluisca poi – assieme al Bilancio dei Bambini e delle
Bambine - nella sperimentazione coerente del Bilancio Partecipativo, concepito
nel 2003 come un percorso di ‘andata e ritorno’ per fasi tra amministrazione e
abitanti nella redazione del Piano Finanziario per il 2004. Questa finalità di
‘supporto operativo’ di un altro percorso parallelo ha mirato anche ad una
forma di educazione civica, in grado di abituare i cittadini ad esaminare le
‘ricadute in termini socio-territoriali’ dell’operato della pubblica
amministrazione, attraverso l’uso di specifici indicatori che arricchiscono nel
cittadino la lettura dei luoghi dove abitano. In tal senso, il Bilancio Sociale
di Castel San Pietro appare come una lettura delle interazioni della
complessità, che esamina non solo il funzionamento della macchina pubblica,
ma anche quello delle organizzazioni cittadine che cooperano in ambito sociale,
considerando l’interazione tra questi due poli, e tra questi e la cittadinanza
nel suo complesso come il ‘valore aggiunto’ che si può generare su un
territorio. E si pone come un documento/strumento di dialogo ragionato
indispensabile allo stabilirsi di un’interazione stabile e duratura con
l’esterno, con un valore di bilancio preventivo, più che di mero consuntivo ‘a
posteriori’. Sulle stesse basi si muovono i Bilanci Sociali del Municipio Roma
XI (che hanno ricevuto premi e attenzioni del Formez e del Consip). Essi
fungono da ‘certificazioni di un profilo etico’ dell’operato congiunto di ente
territoriale e di tessuti sociali, funzionando quasi come un ‘bilancio di
mandato’ redatto prima del tempo, che funge da supporto al Bilancio Partecipativo
e ne rafforza non tanto il significato di strumento di trasparenza e ingegneria
istituzionale, quanto piuttosto la dimensione operativa attenta a realizzare
inclusione sociale tramite il coinvolgimento diretto dei beneficiari e
dell’intera cittadinanza nella costruzione delle politiche. Anche il modo in
cui il documento è redatto – con inusuali accenti poetici nelle parti narrative
– è di particolare interesse, e conta sulla ‘reinvenzione del linguaggio come
produttore costante di potenza’. In tal senso, a partire dall’ancoraggio
territoriale alle Fosse Ardeatine (che si trovano nel Municipio) lavora sul
tema della promozione della memoria, soprattutto tra i giovani, ed evidenzia il
suo ruolo di strumento non solo tecnico-contabile, ma anche capace di veicolare
il rinnovamento dell’ottica culturale, stabilendo espliciti rapporti con altre
esperienze lontane (il Municipio XI è, tra l’altro, gemellato con un caracol
zapatista in Chiapas, e dalla relazione trae importante linfa per sostenere
l’ossimoro del ‘Municipio globale’, come ancoraggio territoriale resistente ma
aperto al dialogo).
Ad
oggi, come ha recentemente osservato F. Montemurro (Il bilancio parla chiaro al
cittadino,
in Il Sole 24 ore, 27 gennaio 2003) rappresentano ancora un percorso poco interessante
i ‘bilanci di contabilità ambientale’ (usati solo in alcune decine di Province
e Comuni, ancorché suggeriti da un disegno di legge del 1997 e dal V Programma
Quadro della UE in materia di ambiente): la ricerca di indicatori significativi
di sviluppo sostenibile appare, infatti, ancora troppo sperimentale,
frammentaria e ‘orientabile’ a scopo di marketing territoriale, tanto da
sembrare adattarsi meglio alle Aziende di Servizi.
Un esito non dissimile hanno avuto finora i ‘bilanci
di mandato’ (oggi in uso in un centinaio di Comuni italiani e in una decina di
Province, sulla base del modello lanciato dal CNEL). Essi, infatti, tendono a
valutare in maniera narrativa le azioni di un’istituzione più che gli impatti e
gli effetti delle scelte di governo sulla società; non riescono, pertanto, a
veicolare rappresentazioni obbiettive che (seppur ‘finalizzate’ ad una precisa
ottica) rispondano agli interrogativi reali dei cittadini sulle politiche
pubbliche. Un’ipotesi di spiegazione è che essi non indagano le percezioni del
cittadino sulle politiche, e vengono redatti nel chiuso degli uffici
(sfogliando valutazioni sui PEG spesso evasive e ‘tautologiche’ invece che appoggiarsi a processi
partecipativi o ad osservatori popolari), cosicché finiscono per restare
lontani dalla realtà, trasformandosi in strumenti – peraltro poco incisivi - di
marketing politico, e perdendo il valore di testimonianza onesta di luci e
ombre di un mandato politico.
1.3 I ‘Bilanci di Giustizia’
I "Bilanci di Giustizia" rappresentano una
campagna lanciata nel 1993, in occasione del quinto raduno del movimento "Beati i Costruttori di Pace", ed è
rivolta alle famiglie, intese come soggetto micro-economico e come nucleo
importante di una trasformazione culturale possibile. Di fatto, i Bilanci di
Giustizia sono iniziative finalizzate alla riduzione dei consumi, al fine di
eliminare tutto ciò che è superfluo. Prevedono la programmazione anticipata
degli acquisti che verranno effettuati in un determinato periodo di tempo, ed
una valutazione a posteriori del rispetto e della regolarità delle previsioni
nell’ambito di tempi prefissati di monitoraggio. L’obiettivo è quello di
individuare i fattori che stimolano maggiormente al consumo, soprattutto quando
questo non è indispensabile rispetto al soddisfacimento dei bisogni essenziali.
Uno degli aspetti centrali del progetto è
l’importanza della condivisione tra diversi soggetti (ad esempio più
famiglie), dei momenti di consumo, nella
convinzione che gli obiettivi si possano realizzare efficacemente solo insieme, in modo
organizzato, mediante una comunicazione costante e un’azione comune. Lo
strumento ideato sia per "auto-misurare" il proprio impegno che per
socializzarlo nel movimento e all’esterno, in funzione politica, è quello del bilancio
familiare. Esso consente, infatti, di rendere visibili e di quantificare i
cambiamenti effettuati nelle scelte economiche, indicando i consumi "normali" e
gli obiettivi di sostituzione di un prodotto considerato “dannoso” (per
l’ambiente come in rapporto a criteri legati al consumo critico e solidale) con
un altro valutato in termini più positivi. Prodotti del commercio equo e
solidale, detersivi biologici, uso delle biciclette al posto dell’auto,
acquisto di elettrodomestici a basso consumo energetico e che non usano i CFC
responsabili del "buco" nell'ozono: sono solo alcuni degli esempi di
"spostamenti" o "slittamenti d’uso" possibili, anche se in
realtà possono non modificare i nostri livelli di consumo, ma solo le loro caratteristiche
qualitative. In altri casi, peraltro, una attenta analisi dei prodotti può far
emergere rapporti tra prezzi e calorie e tra costi e rischi che spingono anche
a ridurre i consumi, tenendo presente che siamo tutti sovralimentati e che è
ormai evidente che una diminuzione dell'uso delle auto del 20% costituirebbe in
realtà un miglioramento della nostra qualità della vita come di quella di tutti
coloro che abitano il nostro territorio.
I bilanci mensili degli aderenti alla Campagna
vengono inviati alla segreteria nazionale, che ne cura l'elaborazione
statistica e redige un rapporto annuale. La segreteria pubblica, inoltre, una
circolare periodica che serve a tenere in collegamento le famiglie che
partecipano al progetto.
Ad oggi le famiglie impegnate sono più di 500. Senza compiere sacrifici
eccessivi, esse hanno dimostrato che è possibile avere una spesa media mensile
di circa 80 euro inferiore ai consumi medi degli italiani, grazie, in
particolare, ad un minore esborso per generi voluttuari. Comportamenti ormai
consolidati divengono centrali nel progetto: ad esempio la raccolta
differenziata dei rifiuti e l'acquisto di prodotti delle Botteghe del Mondo,
messi in atto dal 60% degli aderenti, insieme alla preferenza per alimenti di
stagione e al riutilizzo e scambio di vestiti, abitudini acquisite da quasi il
50% dei partecipanti al progetto.
Un aspetto interessante della Campagna è che non
chiede sacrifici e rinunce in nome di un'etica e di una giustizia concepite in
termini astratti, ma lavora sull’educazione civica, spingendo a riflettere
sulla necessità di spostare le risorse economiche (risparmiate attraverso la
riduzione dei consumi) verso progetti a tutela dell’ambiente, a sostegno delle
popolazioni del Sud del mondo, o dirigendole su adozioni a distanza, o su
investimenti finanziari nelle MAG, nella Banca Etica e nelle cooperative
sociali.
Dal monitoraggio dei bilanci dei partecipanti al
progetto, risulta che parte delle risorse risparmiate sono state reinvestite in
interventi strutturali sulla casa, nella posa di pannelli solari, nella
coibentazione delle pareti, nell'installazione di impianti a gas sull’auto,
nella sottoscrizione di abbonamenti a riviste "alternative" e
nell'appoggio a gruppi ed associazioni pacifiste e ambientaliste. Dal 1996, la
campagna ha trovato la collaborazione del Wuppertal Institute, Germania. Oggi
potrebbe certo costituire un valore aggiunto se trovasse nelle amministrazioni
locali dei partner con i quali elaborare un progetto per mettere in relazione
stretta (come si sta sperimentando in qualche comune brasiliano sulla spinta
della Rete di Economia Solidaria) bilanci familiari e bilanci pubblici, in
un’ottica di maggiore comprensione delle interrelazioni tra stili di vita e
redistribuzione possibile degli investimenti pubblici.
Un altro esito interessante potrebbe venire dalla
costruzione di un rapporto con altre campagne socialmente prodotte che lavorano
sul tema dell’eticità dell’uso delle risorse pubbliche, come ad esempio “Sbilanciamoci”, promossa da oltre trenta
organizzazioni della società civile per analizzare annualmente (ormai dal 2000)
gli orientamenti di politica economica che emergono dalla legge Finanziaria e
dal Bilancio dello Stato e sviluppare proposte alternative, puntuali e
sostenibili, su come usare la spesa pubblica per la società, l'ambiente e la
pace.
“Sbilanciamoci” (http://www.sbilanciamoci.org)
agisce come una
rete di organizzazioni e di altre reti e campagne (Venti di pace, campagna per
la riduzione delle spese militari, Legambiente, WWF, la Campagna
per la riforma della Banca Mondiale) puntando ad un approccio di
rinnovamento dell’ottica culturale che unisce l'elaborazione di politiche
alternative, le pressioni sul Parlamento e la mobilitazione dell'opinione
pubblica. Sbilanciamoci si propone di collegare tra loro questi soggetti ed
iniziative, dando omogeneità alle proposte ed inserendole in un contesto
complessivo di analisi e verifica dei comportamenti del governo, tracciando
scenari alternativi che non sono mere ‘provocazioni’, ma rappresentano misure
praticabili da subito. Il punto di partenza della campagna è la necessità di
trasformare la prospettiva delle politiche pubbliche, rovesciando le priorità
economiche e sociali, ponendo alla base un’idea di sviluppo centrato “sui bisogni
dell’uomo anziché sulle esigenze dell’economia e del mercato”, ovvero uno
sviluppo non misurabile con i tradizionali indicatori economici e monetari
(come il PIL), ma che richiede l’uso di nuovi parametri che assumano come
priorità “lo stato dell'ambiente, l'equità nella distribuzione delle risorse,
lo sviluppo umano, la qualità sociale”. Anche su queste basi, dal 2003 Sbilanciamoci
ha iniziato ad elaborare indicatori originali di sviluppo suddivisi per
Regione (QUARS, Qualità Regionale dello Sviluppo).
2. I luoghi della progettualità condivisa: Forum locali e Costituenti
partecipative
Il dibattito relativo al
ruolo delle istituzioni locali come promotrici di processi di sviluppo sostenibile
ha trovato interessanti contributi nell’applicazione di strumenti innovativi,
orientati a favorire la partecipazione delle comunità locali ai processi
decisionali e a trovare soluzioni specifiche a problemi diffusi.
Un primo esempio è costituito dalla proposta di
attivare un processo partecipativo nel Circondario Empolese Valdelsa, in forme
adeguate alla realtà locale e alle esperienze in corso, con lo scopo di
costruire un luogo pubblico in cui discutere e elaborare collettivamente il
progetto di futuro del nostro territorio. L’idea è maturata a seguito di un
percorso e di una serie di iniziative che qui di seguito vengono elencate:
l’esperienza del Bilancio partecipativo di Porto Alegre; l’adesione del
Circondario alla Carta del Nuovo Municipio (discussa a Porto Alegre nel Forum
degli Amministratori, in due workshop del social Forum e a Empoli in due convegni pubblici);
l’apertura del “Cantiere del Nuovo Municipio” nel Convegno di Roma alla Terza Università del 4 e 5 maggio (con
l’adesione del Presidente del Circondario e del Presidente della Regione
Toscana, il quale ha proposto al network del Cantiere di intervenire al meeting
di San Rossore il 16 e 17 luglio); la presentazione del piano di sviluppo
dell’IRPET (28giugno 2002); la
presentazione del progetto di rete e della Costituente Empolese al Convegno di
San Rossore della Regione Toscana (luglio 2002), con relativo dossier; il
convegno di Empoli del network del Nuovo Municipio del 5 ottobre 2002, dove si
è deciso la costituzione della rete (statuto e Carta d’Intenti); la
presentazione del progetto della rete al Forum sociale europeo di Firenze ( 8
novembre 2002); la partecipazione alla mostra dell’innovazione di Arezzo con
Prato e Follonica; la riunione operativa di Firenze del 24 aprile 2003, nella
quale si è nominata Empoli come comune capofila della rete nazionale per
accompagnare la fase della sua costituzione (novembre 2003).
L’attivazione del
processo partecipativo per l’elaborazione di un progetto locale di sviluppo socioeconomico
e territoriale socialmente condiviso e prodotto è concisa con lo svolgimento di
due conferenze d’area svoltesi nel Valdarno e nella Valdelsa. I resoconti di
queste attività sono riportati negli schemi allegati: per ciascuno degli
incontri sono indicati i problemi, le risorse e le proposte emerse durante le
discussioni con i partecipanti, relativamente agli ambiti tematici trattati e
sintetizzati in una matrice interpretativa. Gli incontri tenutisi a Empoli e a
Castelfiorentino sono stati le prime occasioni di scambio tra diversi attori
della società civile, attori istituzionali, attori economici, attori sociali,
agricoltori, artigiani, associazioni e così via, per la costruzione di uno
scenario di sviluppo locale.
Si tratta di un processo strutturato di partecipazione che consenta di costruire
una serie di luoghi pubblici (delle costituenti partecipative) dove le
diverse componenti sociali possano comunicare e mettere in relazione progetti,
domande, problemi, per delineare delle politiche che siano legate ai bisogni
collettivi e che esprimano uno stile di sviluppo che valorizzi l’identità e il
patrimonio peculiare del sistema territoriale locale perseguendo i seguenti
obiettivi:
-
facilitare la comunicazione sociale per una riflessione collettiva sui
futuri possibili del territorio che solitamente non sono dichiarati e che sono
decisi altrove dai grandi poteri privati e pubblici;
-
coinvolgere nel processo partecipativo il maggior numero di abitanti,
di attori sociali e di categorie sociali tradizionalmente escluse o meno
rappresentate;
-
mobilitare e valorizzare le diverse energie del territorio, e in primo
luogo i saperi contestuali e i progetti che i soggetti attivi della società
locale, pubblici e privati già esprimono
nei diversi campi dell’economia, dell’ambiente, del patrimonio territoriale,
della cultura, dell’azione sociale;
-
passare da forme consultive di partecipazione a singoli problemi, a
istituti permanenti di co-decisione nel governo locale che costituiscano nuovi
istituti intermedi di democrazia partecipativa, fra gli istituti di democrazia
rappresentativa e istituti di democrazia diretta (assemblea, referendum).
Il processo si propone di
coinvolgere una pluralità di attori locali, pubblici (comuni, circondario,
agenzie pubbliche, scuole, ecc…), privati (associazioni delle categorie
produttive), del “terzo settore” (associazioni, circoli associativi,
cooperative sociali, comitati) e semplici cittadini.
Il processo di costruzione pubblica di uno scenario
di sviluppo condiviso viene integrato con il progetto di costruzione di un Atlante
del patrimonio territoriale del Circondario Empolese Valdelsa, attivato dal
Circondario con la Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze. In
particolare, le operazioni di ricerca e interpretazioni di pratiche progettuali
diffuse corrispondono alla sezione dell’atlante sul “patrimonio delle nuove
pratiche sociali”.
In questo caso gli obiettivi specifici riguardano (dal
punto di vista delle nuove economie) la documentazione di progetti, azioni,
politiche, in cui sia particolarmente evidente la saldatura fra il patrimonio
territoriale sedimentato e nuovi attori della trasformazione capaci di produrre
economie locali innovative fondandosi sulla reinterpretazione del giacimento
delle risorse locali (il milieu), e (dal
punto di vista delle pratiche sociali e delle nuove dimensioni culturali)
la descrizione dei processi che utilizzano le risorse locali per costruire
nuove forme di comunità, di relazioni adeguate al nuovo spazio multiculturale,
di nuovi reticoli solidali (di cultura, di genere, di età, di stili di vita…),
di nuove pratiche dell’abitare e del produrre, di nuovi comportamenti di cura,
in relazione alla valorizzazione del
patrimonio territoriale.
Compito precipuo di questa sezione dell’Atlante è dunque quello di costruire un “archivio dei progetti socialmente prodotti” che vengono denotati come best practices ; questo archivio contiene il “catalogo” dei soggetti dei progetti e delle azioni in atto che possono implementare il progetto di futuro sostenibile.
Accanto alle costituenti
partecipative (che spesso prendono corpo con i nomi più diversi) troviamo le
esperienze dei Forum, ad esempio quelli promossi nell’ambito dei
processi di Agenda 21 Locale, ma comunque sperimentati anche in altri contesti.
Interessante, a questo proposito, è l’esperienza
avviata in collaborazione dal Comune e dalla Provincia di Ferrara, che ha
registrato notevoli consensi, da un lato per il fatto di aver anticipato una
tendenza che poi si è diffusa in molte altre realtà italiane, dall’altro lato
in virtù delle modalità con cui il processo è stato posto in essere e dei
risultati ottenuti. I due Enti Locali hanno avviato un unico percorso
attraverso la costituzione di un Forum provinciale. Il processo, almeno nella
prima parte, ha focalizzato maggiormente la propria attenzione sul Comune di
Ferrara. Oggi, si è più propensi a valorizzare la prospettiva provinciale, per
la sua capacità di creare interconnessione tra diverse aree. Lo slittamento di
prospettiva ha prodotto, ad oggi, una “mappa della partecipazione”
finalizzata all’integrazione di Agenda 21 Locale con altri processi
partecipativi attivi nel contesto ferrarese.
Ad oggi, il Piano di Azione
prodotto dal Forum provinciale, primo obiettivo del processo, non si contraddistingue
tanto per l’originalità, ma per la capacità di dar voce, coerentemente con un
processo partecipativo, al “sentire medio” della comunità, rappresentata da
circa 150 portatori di interessi, circa l’idea di sviluppo della città e del
territorio. I contenuti e le azioni individuate recepiscono i principi del
Piano di Azione approvato nel 1992 in occasione della Conferenza su Ambiente e
Sviluppo di Rio de Janeiro invitava tutte le comunità ad attivare un’Agenda 21
Locale che consentisse di declinare gli obiettivi generali individuati dalla
Conferenza in programmi e azioni legate alla specificità di ogni contesto
territoriale. Al fine di supportare le autorità locali nel cammino verso la
sostenibilità, l’Unione Europea ha promosso, nel 1994, la Campagna delle
Città europee sostenibili, che trova espressione nella Carta di Aalborg, la
quale definisce il concetto di sostenibilità ambientale, imposta la Campagna
delle Città europee sostenibili e esplicita le linee direttrici che
dovrebbero dar corpo ai processi di Agenda 21 Locale ed essere poi arricchiti
da temi e declinazioni locali.
Nella maggior parte dei casi
di Agenda 21, i Forum costituiscono uno
spazio di discussione tematico permanente nel quale una comunità locale si
interroga sul presente per elaborare una visione condivisa del futuro. Al Forum
partecipano tutti i cittadini che esprimono un interesse specifico (stakeholders),
sia attraverso un’organizzazione sia a titolo individuale. Pur nascendo con
l’obiettivo di produrre un Piano di Azione Locale, i Forum sono importanti in
quanto consentono tempi lunghi per la condivisione di problemi e soluzioni,
trasmettono nuove conoscenze, consentono nuovi partenariati, richiedono
partecipazione e responsabilizzazione individuale e collettiva.
Di
solito, ogni realtà locale può strutturare i Forum in modo autonomo e coerente
con le caratteristiche del proprio territorio. Tuttavia, nelle esperienze
concretizzatesi fino ad ora ha teso ad affermarsi e diffondersi la metodologia Easw
(European Awareness Scenario Workshop), tecnica danese
promossa dall’Unione Europea per il coinvolgimento multisettoriale di diversi
attori (politici/amministratori,
operatori economici, esperti, utenti/cittadini) su iniziative e progetti di
sviluppo sostenibile a livello urbano, mirata a stimolare la partecipazione democratica nelle
scelte legate al miglioramento delle condizioni di vita. Il metodo Easw
prende avvio dalla convinzione che i partecipanti, anche nel caso di semplici
cittadini, siano gli esperti, in quanto, operando a livello locale, essi
conoscono opportunità e limiti e possono promuovere il cambiamento modificando
i propri modelli comportamentali.
Forum Locali e Costituenti
Partecipative rappresentano un momento di apprendimento collettivo e
contribuiscono al riconoscimento, alla valorizzazione e al rafforzamento del
capitale sociale locale. Sono strumenti che favoriscono la costruzione (e la
successiva messa in opera) di “progetto locale”, inteso come scenario
condiviso orientato alla trasformazione solidale
ed ecologica del territorio e in cui le istituzioni locali, pur operando in una
logica top-down, devono riconoscere il tessuto sociale come
interlocutore politico e dare visibilità alle risorse a alle energie innovative
che questo mette in campo. I Piani di Azione elaborati nei Forum e nelle
Costituenti dovrebbero acquisire valore normativo e fondersi con la
pianificazione ordinaria.
Nei casi coronati da maggior
esito, le attività di Forum e Costituenti tendono a svolgersi in spazi fisici e
a fondarsi principalmente sulla forza delle relazioni interpersonali. Tuttavia,
esistono casi in cui ulteriori contributi allo scambio e al confronto vengono
dall’implementazione di “reti civiche o territoriali digitali”, una sorta di
piattaforma di comunicazione bi-direzionale in grado di offrire ai cittadini
una più agevole fruizione dei servizi offerti dagli enti locali e dalle
strutture pubbliche e, al tempo stesso, di trasformare gli abitanti in
produttori di saperi condivisi e in partner fondamentali nella costruzione del
tessuto sociale urbano. Interessante, in questo senso, il progetto “MetaLab
2004 – Laboratorio di comunicazione urbana”, avviato dall’associazione no
profit Prhomowelfare Communication, in collaborazione con il Comune di Gubbio,
il Corso di laurea interfacoltà in Scienze della Comunicazione e il centro di
formazione della Camera di Commercio di Gubbio. Parte integrante di tale
progetto è la diffusione, per la gestione del complesso della pubblica
amministrazione, di supporti informatici, in particolare software libero.
L’empowerment delle comunità locali, nell’applicazione di strumenti quali Forum Locali e Costituenti Partecipative, tende ad essere efficace soprattutto nel momento in cui si concretizza il coinvolgimento, non solo della cittadinanza riconosciuta in virtù dei suoi diritti formali, ma anche di soggettività nuove, portatrici di istanze, prospettive, interessi diversi e rappresentative di una dimensione cosmopolita e di un mondo del lavoro che – sempre di più – si sposta e delocalizza sui territori. Interessanti, in questo senso, sono le molteplici esperienze in cui Forum Locali o Costituenti divengono protagonisti di progetti di cooperazione decentrata (significativi il caso del Forum delle Politiche Giovanili di Pomigliano d’Arco e quello del Tavolo Agenda 21 Locale della provincia di Ferrara che è servito anche da primo tentativo di raggiungere e coinvolgere nel processo anche i cittadini stranieri, fino ad ora esclusi dal percorso realizzato, anche attraverso lo Sportello “Ecoidea”).
Oggi, con l’espressione di
‘cooperazione decentrata’ si intende l’insieme delle azioni di cooperazione allo sviluppo svolte dagli enti
locali (Regioni, Province, Comuni), singolarmente o in consorzio tra loro,
attraverso il concorso delle risorse della società civile organizzata presente
sul territorio di relativa competenza amministrativa (università, sindacati,
ASL, piccole e medie imprese, imprese sociali). Queste azioni di cooperazione
si realizzano attraverso una sorta di partenariato con enti omologhi del Sud
del mondo. Un primo obiettivo della cooperazione decentrata consiste nel
superare centralismo e assistenzialismo,
evidenziatisi solitamente come principali limiti della cooperazione
tradizionale. A tal fine, la cooperazione decentrata si propone di:
-
mobilitare le
popolazioni e tener conto maggiormente dei loro bisogni e delle loro priorità;
-
rafforzare il
ruolo e la posizione della società civile nei processi di sviluppo (logica bottom-up
);
-
favorire lo sviluppo economico e sociale – duraturo ed equo -
attraverso la partecipazione diretta degli individui, sia quelli dei paesi
donatori che quelli dei paesi beneficiari.
La progettazione a partire
dalle esigenze locali, l’integrazione delle competenze locali e delle
competenze dell’ente del paese industrializzato che promuove l’intervento, il riconoscimento delle competenze specifiche delle
entità locali e l’invito a farle cooperare rappresentano – di norma - gli
elementi qualificanti della cooperazione decentrata.
I programmi e i progetti
‘decentrati’, per il loro carattere ristretto, risultano in genere più
controllabili, e proprio il fatto di aver puntato sullo sviluppo locale
costituisce una garanzia di sostenibilità dell’intervento, ossia la sua
capacità di sostenersi nel tempo attraverso le risorse umane, tecniche ed
istituzionali locali, attraverso una capacità di gestione locale.
Nel panorama italiano, i
progetti di cooperazione decentrata attuati fino ad oggi risultano ancora
eccessivamente frammentati e testimoniano, spesso, la tendenza a riconoscere e mappare solamente i
portatori di interesse già riconosciuti, evidenziando una
scarsa capacità di
leggere le peculiarità dei territori ‘di partenza’ per poter individuare tutti
i soggetti che possono partecipare ad un intervento di cooperazione. Inoltre,
raramente si è perseguito l’obiettivo della reciprocità, intesa come
apprendimento reciproco da esperienze concrete identificate in diversi
territori, reciproca crescita culturale, costruzione di una visione condivisa e
quindi ripensamento e modifica di comportamenti e scelte di politica di
sviluppo. Poco sfruttata è anche l’opportunità di creare legami con le comunità
di origine della popolazione immigrata residente sul territorio locale (il caso
di Nonantola è un esempio positivo di come sia possibile tessere proficuamente
simili legami).
Ciò non toglie che le
potenzialità insite nelle pratiche della cooperazione decentrata siano
estremamente interessanti e lascino intravedere uno spazio in cui generare
dinamiche politiche e sociali innovative. Le relazioni createsi di recente tra
alcuni comuni italiani che sperimentano il Bilancio Partecipativo e città
latinoamericane o europee che hanno in atto processi simili, offrono un esempio
significativo di come questa ‘contaminazione costruttiva’ si costituisca come
valore aggiunto per i territori coinvolti. Allo stesso tempo, sarebbe
importante ipotizzare nella cooperazione decentrata processi di coinvolgimento
di realtà territoriali che già praticano forme di scambio internazionale di
lavoro e saperi contestualizzati, come ad esempio la rete dei Wwoofer
che già organizza scambi soggiorno/lavoro in fattorie biologiche ed
ecovillaggi, anche se ad oggi limitatamente all’ambito infraeuropeo.
Nonostante sia opportuno che ogni territorio individui la forma di cooperazione decentrata più consona alle proprie specificità e alle proprie risorse, importanti sono le esperienze, avviate di recente, finalizzate ad un confronto tra diverse realtà territoriali organizzate. Un esempio in questo senso è la Rete dei Comuni Solidali, nata dall’impegno di alcuni sindaci e amministratori piemontesi, decisi a concretizzare progetti di solidarietà internazionale. La Rete nasce dall’esigenza di una cooperazione decentrata, che avvii il contatto diretto fra amministratori, tecnici, volontari, dei comuni “ricchi” con amministrazioni con minor disponibilità di risorse economico-finanziarie. Inoltre, il progetto intende sfatare il luogo comune secondo il quale per promuovere cooperazione occorre avere grandi cifre a disposizione ed uffici e personale da dedicarvi a tempo pieno. Lavorando in Rete, è spesso possibile superare piccoli problemi pratici e tecnici. I Comuni che aderiscono alla Rete hanno l’obbligo di attivarsi e promuovere sul territorio cultura di pace e solidarietà attraverso manifestazioni che coinvolgano le associazioni, le scuole e la popolazione. Iniziative simili – talora ancora in fase di formalizzazione – sono in atto anche in Toscana, a partire da una base di ‘esperienze comuni’ e collaborazioni a rete tra piccoli municipi, e talvolta (come nel caso della Rete ‘La Toscana per Leon’) anche in stretta relazione con ONG e centri di ricerca universitaria.
Interessanti sono i casi in cui la ricerca
(attraverso Forum Locali e Costituenti Partecipative) di un’effettiva e
concreta integrazione di cittadini stranieri nel contesto locale e nello
scenario di sviluppo sostenibile condiviso, offre spazio per iniziative utili
anche al “ben vivere” dei vecchi e nuovi abitanti di un territorio. E’ il caso
del progetto “Un Tetto per Tutti -
Autocostruzione Associata per famiglie e coppie italiane e straniere”, promosso da Alisei (organizzazione
non governativa, nata nel 1998, che opera a livello nazionale ed internazionale
nel campo della cooperazione, dell'aiuto umanitario, dell'educazione allo
sviluppo e nelle politiche d'inserimento della popolazione immigrata), in corso
di realizzazione in Umbria e recentemente avviato anche in Emilia Romagna. In
particolare, il Comune di Ravenna ha stilato un Protocollo di Intesa con Alisei
per la realizzazione di quattro cantieri di autocostruzione all’interno del suo
territorio. Nel frattempo, grazie alla collaborazione della Regione Emilia
Romagna, stanno venendo resi operativi una serie di strumenti legislativi e di
risorse che permettano di individuare nell’autocostruzione associata uno dei
metodi operativi per rispondere a due obiettivi primari: da una parte la
soddisfazione del bisogno di un’abitazione in proprietà per tanti nuclei
familiari italiani e stranieri, dall’altra l’attuazione di una politica
abitativa che metta in pratica anche forme di convivenza interetnica. In questo
modo si cerca di dare un contributo concreto al superamento del disagio
abitativo di varie famiglie italiane e straniere, senza metterle in
concorrenza, ma favorendo collaborazioni e sinergie.
L'autocostruzione
associata offre una soluzione, sia pure parziale, al serio problema sociale di
trovare casa, diffuso in molte aree del territorio nazionale. Tale problema colpisce
spesso sia i cittadini italiani che quelli stranieri, ma per quest’ultimi il
disagio abitativo si manifesta in forme particolarmente gravi. Gli immigrati,
di conseguenza, si vedono obbligati ad accettare soluzioni abitative
transitorie e degradate che generano marginalità e malcontento, e suggeriscono
all'immaginario collettivo l'idea di comportamenti devianti. L’autocostruzione
è una soluzione che si fonda essenzialmente sul lavoro manuale degli stessi
futuri proprietari che, sotto la direzione di esperti, l'appoggio
logistico/tecnico delle amministrazioni locali e delle organizzazioni del
territorio e grazie a facilitazioni al credito bancario, possono abbattere i
costi di costruzione sino al 70%. Essa ha già riscosso successi in Inghilterra,
Germania, Danimarca e Olanda e recentemente è stata riscoperta e riproposta
anche in Italia: ad esempio nel Comune di Roma o in attività promosse dalla
Fondazione Michelucci nel Comune toscano di San Piero a Sieve. Nel complesso,
però, essa resta soprattutto un patrimonio dei movimenti di Lotta per la Casa e
di esperienze di occupazione e recupero di immobili da destinare ad abitazione
e/o a spazi sociali, che solo di recente va trovando qualche flebile canale di
dialogo con le pubbliche amministrazioni (cfr. il caso del movimento romano che
fa capo ad Action).
3. Il progetto implicito delle nuove economie territoriali
Le diverse realtà produttive e di consumo che si
ispirano ai principi della sostenibilità e le energie espresse dalla società civile
organizzata in reti di economia solidale assumono oggi un’importanza crescente
all’interno dei processi di trasformazione qualitativa del territorio, verso
linee di sviluppo locale e autocentrato.
Il settore della produzione
biologica sta
registrando una crescita significativa negli ultimi anni, occupando una nicchia
sempre più ampia di mercato. Ad esempio, da dati forniti dall’Agenzia Regionale
per lo Sviluppo e l’Innovazione in Agricoltura (ARSIA) si rileva che nella sola
Toscana il numero degli operatori biologici (produttori e trasformatori) è in
costante aumento nell’ultimo decennio. Da un confronto tra dati relativi al
1994 (430 unità) e quelli del 2002 (2644 unità) si registra un aumento del
515%. Anche le superfici coltivate con metodo biologico sono in crescita: dal
2001 al 2002 la superficie agricola utile (s.a.u.) destinata alle colture
biologiche è aumentata dell’8,77%.
Ma i dati quantitativi, pur importanti per
comprendere l’andamento del settore, risultano poco significativi se messi a confronto
con le numerose attività in cui sono impegnati molti operatori biologici:
campagne di informazione e di difesa dei diritti dei piccoli agricoltori,
costruzione di reti di economia solidale, formazione, ecc.
Il successo dell’esperienza delle Reti di Biofattorie Didattiche, promossa dall’AIAB e in molti casi sostenuta da
amministrazioni provinciali e regionali, è un esempio di come l’agricoltura di
qualità, la salvaguardia della biodiversità, la produzione legata ai cicli
naturali e capace di valorizzare il territorio e l’ambiente, siano considerati
fattori importante per la diffusione della cultura della sostenibilità e per la
formazione delle giovani generazioni. Interessante in questo senso l’esperienza
della biofattoria didattica La Colombaia, in Toscana, che considera la
formazione un elemento fondante del processo di valorizzazione, recupero e
innovazione della cultura contadina, della diffusione della consapevolezza che
l’agricoltura biologica svolge un ruolo fondamentale nella costruzione e nel
mantenimento del territorio e del paesaggio e nella tutela attiva della
biodiversità (la fattoria lavora alla salvaguardia di cultivars locali e
all’allevamento di specie in via di estinzione).
Nello stesso senso si può interpretare la nascita,
nel 2002, del Foro
Contadino-Altragricoltura, un’associazione no profit che si propone il superamento del
modello industrialista dell’agricoltura attuale e la valorizzazione della via
contadina alla gestione del territorio, per il riconoscimento dell’utilità
sociale degli insediamenti rurali, la costruzione di un modello di società
solidale basata sul rispetto della sovranità alimentare dei popoli, la lotta
contro gli OGM, la costruzione di un rapporto solidale tra produttori e
cittadini. Una campagna importante attivata dal nodo toscano del Foro Contadino
riguarda il sostegno ad alcune aziende soggette a sfratto da parte dei
proprietari dei terreni, come nel caso della Cooperativa Eughenìa, in provincia
di Grosseto.
Molte aziende biologiche sono legate al circuito delle
reti di economie solidali, soprattutto come fornitori
di Gruppi di Acquisto, ma più in generale per la condivisione di idee, metodi e
principi.
Il nucleo teorico-pratico d’economia solidale è una strategia di collaborazione capace di costruire reti di relazioni locali tra produttori, consumatori, finanziatori, distributori e comunità, secondo principi di cooperazione, solidarietà, mutuo appoggio e sviluppo autocentrato. Le reti integrano diversi settori e realtà territoriali che si arricchiscono reciprocamente valorizzando le specificità locali e sono costituite da nodi di produzione, distribuzione e consumo, dalle loro interconnessioni e da flussi relazionali di tipo materiale (tecnologie, prodotti, servizi) e immateriale (informazioni, conoscenze, saperi locali e tradizionali, valori).
Nei paesi europei, le pratiche di economia solidale
si basano sugli stessi principi teorici ma hanno caratteristiche diverse da
quelle presenti in America Latina: mentre nel continente sudamericano l’economia
di solidarietà nasce come unica risposta possibile a condizioni di povertà
estrema di larghe fasce di popolazione, nel mondo occidentale essa si sviluppa
a partire da scelte di tipo etico e culturale, che coprono nicchie di mercato
in costante crescita.
I principi dell’economia solidale costituiscono dei
motori di cambiamento capaci di innescare profondi processi di innovazione
sociale e culturale attraverso l’aumento della consapevolezza, nei singoli
individui, di temi quali il benessere collettivo (si pensi al valore di beni
comuni come le risorse idriche, energetiche e alimentari), la distribuzione
equa e la rinnovabilità delle risorse, l’accesso all’informazione e
all’istruzione; la sostenibilità ambientale e il diritto alla salute; la nuova
centralità dello sviluppo locale.
Le tracce di tali processi di trasformazione si
trovano nei cambiamenti che da alcuni anni stanno investendo le nostre società:
opposizione crescente, in diversi strati sociali, alle logiche di sfruttamento
illimitato delle risorse naturali e proposizione di nuovi stili di vita
orientati allo sviluppo qualitativo e sostenibile; cambiamenti all’interno
dell’organizzazione del mondo del lavoro, caratterizzati dal declino del lavoro
salariato e dal diffondersi del lavoro autonomo e della microimpresa;
diffusione di pratiche orientate all’autorganizzazione per il soddisfacimento
di alcuni bisogni: gruppi di autoaiuto, officine di lavoro solidali,
ecovillaggi, comitati di quartiere e di caseggiato, centri sociali autogestiti,
iniziative di autorecupero di edifici abbandonati, gruppi di acquisto, consorzi
di piccoli produttori, orti familiari e comunità di condominio, programmi
comunitari di sviluppo locale.
In Italia le prime pratiche di economia solidale
risalgono agli anni ‘80 con la creazione delle MAG (cooperative di mutua
autogestione, prime realtà della finanza etica e del microcredito) e la nascita
del Commercio Equo e Solidale (forma di scambio economico con realtà produttive
dei paesi del sud del mondo che garantisce una retribuzione equa dei produttori
e favorisce lo sviluppo sostenibile delle economie locali).
Da queste prime pratiche si sviluppa, nel corso
degli anni ’90, un circuito molto vivace e articolato di esperienze legate al
diffondersi della cultura del consumo critico e dello scambio non monetario
(banche del tempo, reti per il baratto, ecc.), che conduce alla nascita, nel
2002, della Rete dell’Economia Solidale. Alla Rete appartengono realtà molto
diverse, che si riconoscono in alcuni principi e metodi comuni con l’obiettivo
di dare risposte concrete e “di relazione” ai problemi che investono le scelte
economiche quotidiane e gli squilibri indotti dalla globalizzazione economica.
La Rete è composta da soggetti appartenenti a reti
“tematiche” di natura diversa, spesso integrate e fortemente interagenti tra
loro:
§
Reti di consumo critico (Botteghe del Mondo, Ass. del commercio equo e
solidale, Gruppi di Acquisto), che fanno riferimento a beni e servizi prodotti
secondo principi etici e di sostenibilità (piccoli agricoltori biologici,
artigiani, consorzi, cooperative, imprese sociali).
§
Reti della finanza e alle assicurazioni etiche (MAG, Banca Popolare
Etica, Ass. di microcredito).
§
Reti di scambio non monetario (Reti Economiche Locali, Ecomonete,
Banche del Tempo, Bilanci di Giustizia, Reti per il Baratto).
§
Associazioni e imprese che operano nel campo del turismo responsabile e
sostenibile.
Molti sarebbero i casi interessanti di pratiche di
economia solidale da approfondire nell’ambito della ricerca. In questa fase,
per necessità di sintesi, e a puro titolo di esempio, ne citiamo alcuni: come
la ricchezza delle esperienze legate al Commercio Equo e Solidale e alle
Botteghe del Mondo, centri di distribuzione dei prodotti e diffusione di
informazione e cultura, che costituiscono un esempio di rete “settoriale” che
opera sia a scala locale che internazionale, costruendo anche reti “lunghe” di
relazioni economiche che si oppongono ai principi e alle dinamiche della
globalizzazione. Il Commercio Equo e Solidale rappresenta, infatti, una forma
di scambio con realtà produttive dei paesi del Sud del mondo capace di
contrastare le logiche dello sfruttamento della manodopera e delle risorse
ambientali di tali paesi, della rapina delle materie prime ai prezzi imposti
dalle multinazionali, dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario
Internazionale. Nell’arco di dieci anni, cioè da quando sono comparsi in Italia
i primi gruppi organizzati per l’importazione e la commercializzazione dei
prodotti, il Commercio Equo e Solidale (ancora giovane nel nostro paese se
messo a confronto con le esperienze ormai trentennali di alcuni paesi europei)
è cresciuto fino a contare su una rete di distribuzione di circa 350 Botteghe
del Mondo.
Altro elemento di estremo interesse è costituito dal
rapido proliferare di Gruppi di Acquisto Solidale (GAS) a livello nazionale,
che vanno a costituire una rete di scambi diffusa e capillare, capace di
attivare filiere di produzione-distribuzione-consumo a scala locale.
Sono da segnalare inoltre gli elementi di innovazione
interna che emergono da alcune pratiche, come nel caso della Banca del Tempo di
Guspini (CA), nata nel 1999, e che vede
la partecipazione di un alto numero di correntisti che si scambiano prestazioni
che riguardano lo svolgimento della vita quotidiana (la spesa, la cucina, la
lavanderia, le relazioni con gli enti pubblici, i bambini, gli anziani, il
tempo libero in compagnia...) e saperi - sia saperi esistenti sul mercato che
saperi "fuori mercato", nel senso che ad essi non è attribuito valore
economico (è il caso dei saperi delle persone anziane e delle casalinghe). In
particolare questo secondo aspetto ha favorito la socializzazione ed ha
contribuito ad un processo di autoriconoscimento, da parte della comunità
locale, del patrimonio locale, inteso non solo in termini di prodotti tipici,
ma di elementi culturali e modalità relazionali. Ciò ha consentito
all’esperienza di evitare il rischio, comune a molte Banche del Tempo, di
divenire sterile produzione di beni ed utilità a carattere individuale. Guspini
ha saputo rinnovarsi, innescando un processo di condivisione e costruendo beni
– materiali ed immateriali - comuni e di interesse collettivo. Altra
particolarità di quest'esperienza sta nell'aver coinvolto quasi tutte le
famiglie del paese e persone di tutte le età, stimolando sensibilità e
creatività individuali e collettive e promuovendo la coesione sociale.
La molteplicità dei temi e
dei soggetti coinvolti e l’integrazione tra le diverse reti “settoriali”
(produzione, distribuzione e commercio secondo i principi del consumo critico,
finanza etica e microcredito; scambi non monetari, ecc.) creano molteplici
relazioni di scala locale tra consumatori e produttori, come dimostrano i casi
in cui il grado di complessità e integrazione delle esperienze rende possibile
la sperimentazione di distretti economici territoriali.
A pochi mesi dalla sua nascita la Rete promuove e
sperimenta la nascita di Distretti di Economia Solidale (DES),
attraverso la costruzione di reti di scambio e cooperazione tra le diverse
realtà che si muovono nell’ambito delle economie di relazione, per formare un
circuito economico a base locale, capace di valorizzare le risorse territoriali
e creare filiere di produzione-distribuzione-consumo di beni e servizi a
partire da esperimenti pilota che coinvolgano i soggetti già operanti sul
territorio (agricoltori biologici, gruppi di consumatori, cooperative,
associazioni, imprese sociali, ditte individuali di artigiani e commercianti,
ecc.), ma anche operatori “esterni”, le cui pratiche siano riconducibili a
principi di equità e sostenibilità (piccoli agricoltori che lavorano non solo
per la produzione di merci di qualità ma anche per la tutela e la salvaguardia
dell’ambiente e del paesaggio, gruppi di interesse o di vicinato organizzati
per la gestione collettiva di alcune questioni comuni, gruppi di affinità che
sperimentano forme di vita basate sulla proprietà indivisa e sul mutuo scambio,
ecc.)
Gli strumenti, i contenuti e le azioni che
caratterizzano il processo di formazione dei distretti sono espressi con
chiarezza nei vari documenti realizzati dalla RES e dai singoli distretti
attualmente in costruzione, che in accordo con i principi dell’economia
solidale, si propongono di:
-
privilegiare, incentivare e sostenere la produzione locale e i piccoli
produttori con cui si può avere uno scambio diretto basato sulla conoscenza e
la fiducia reciproca e solo quando questa non sia in grado di rispondere alla
domanda, riferirsi a reti solidali più distanti. Lavorare in rapporto con le
realtà presenti sul territorio per la costruzione dello sviluppo locale,
condividendo, quando possibile, percorsi comuni nella ricerca di nuovi stili di vita e di relazione economica.
-
ridurre significativamente l'impronta ecologica dei
beni e servizi offerti, considerando sia il ciclo di produzione che il ciclo di
vita dei prodotti: forme produttive ad alto impiego di lavoro e bassa intensità
capitali, materia ed energia; uso di energie rinnovabili; beni durevoli che
consentano il riciclaggio, la riparazione e il recupero;
-
garantire l’assenza di sfruttamento dei lavoratori e
la tutela della loro dignità nelle fasi di produzione e distribuzione
(responsabilità sociale delle imprese);
-
impiegare le risorse economiche e finanziarie in attività tese alla
valorizzazione socio-ambientale del territorio e investire gli utili (o parte
di essi), per il sostegno dei singoli soggetti o per il potenziamento
della rete.
La costruzione dei distretti
prevede, inoltre, un ulteriore complessificazione del quadro delle relazioni,
con il coinvolgimento di soggetti economici e istituzionali e attori
socio-culturali non direttamente riconducibili al mondo imprenditoriale a
finalità etica. Questo significa che gli attori operanti in maniera finora
autonoma e “di nicchia”, in riferimento a pratiche ispirate all’economia di
solidarietà, si propongono di creare forme di collaborazione attiva con gli
altri soggetti presenti sul territorio. I distretti territoriali si
caratterizzano per i vantaggi economici che si realizzano nelle interdipendenze
e nelle sinergie che collegano le imprese alla popolazione, e per le molteplici
forme di valorizzazione del patrimonio territoriale locale (risorse
territoriali, saperi tradizionali, professionalità,valori ambientali, sociali e
relazionali) che mettono in atto. Il DES Brianza, ad esempio, propone la
creazione di un marchio locale per il latte crudo e biologico partendo dal
presupposto che “la domanda di consumo di prodotti locali, ecologici e
biologici, potrebbe interpellare le scelte imprenditoriali di cooperative ed
imprese sociali nella direzione di nuove produzioni che controllino intere
filiere e si basino su un patto forte con i Gruppi d’Acquisto del territorio”.
La creazione dei marchi per i beni e i servizi
prodotti all’interno del sistema territoriale locale, costituisce un nodo
centrale per l’attivazione dei distretti, al fine di valorizzare i processi di
produzione caratteristici dell’economia solidale. L’economia solidale si
preoccupa di proteggere le imprese dagli eccessi competitivi del mercato
attraverso la marcata differenziazione qualitativa dei prodotti ottenuta
privilegiando la produzione di beni fortemente legati ai territori, ad elevato
contenuto di conoscenza/informazione e ad elevata qualità ambientale.
In questa prospettiva si inquadra anche il vivace
dibattito attivato all’interno della RES sulla creazione di monete locali.
Ricordiamo a questo proposito la recente nascita dell’Ecomoneta del Parco
dell’Aspromonte, una banconota che ha diffusione all’interno del Parco,
disegnata da artisti (cosa che le conferisce anche un valore in sé come
oggetto). L’EcoAspromonte è stata progettata al fine di incentivare l’acquisto
dei prodotti tipici del Parco Nazionale dell’Aspromonte e di beni e servizi
all’interno della filiera del turismo responsabile, culturale a ambientale, con
lo scopo di sostenere le attività produttive locali orientate alla
sostenibilità e di contribuire al rafforzamento dell’identità territoriale
locale.
La costruzione dei distretti
implica la creazione di un rapporto attivo tra le politiche istituzionali e la
rete delle economie solidali, improntato ai principi dello sviluppo locale
autosostenibile.
Occorre però tenere conto che le esperienze
associative della Rete coinvolgono piccoli gruppi e comunità, che cercano di
soddisfare i propri bisogni e affrontare i problemi sociali attraverso
un’azione diretta a cui ogni membro può partecipare con l’impegno e l’interesse
personale secondo le proprie attitudini. Il carattere rivendicativo delle pratiche
(fare pressione affinché altri si facciano carico dei problemi) riveste un
ruolo marginale rispetto alla ricerca di soluzioni immediatamente praticabili
nel quotidiano attraverso il confronto e l’aiuto reciproco, in un’ottica di
autosviluppo in cui assume rilevanza il nesso tra la volontà di trasformazione
e il porsi come alternativa concreta adottando da subito, su piccola scala, i
valori e i rapporti che si aspira a diffondere a livello dell’intera società.
Nelle esperienze di economia solidale sono centrali la partecipazione e
l’autogestione, capaci di sviluppare coscienza critica e senso di
responsabilità negli individui.
In generale le esperienze legate alla rete di
economia solidale sono caratterizzate da relazioni, talvolta ben strutturate e
articolate, tra soggetti operanti nell’ambito della società civile e delle
imprese sociali, e da scarsi rapporti con le
istituzioni. Fa eccezione l’esperienza di Roma, in cui i soggetti operanti
all’interno del circuito delle economie solidali trovano un punto di contatto e
coordinamento nel Tavolo dell’Altra Economia, promosso dall’Assessorato alle
Periferie e al Lavoro del Comune, con l’obiettivo di costituire un punto di
riferimento e di attivazione di progetti che cercano di valorizzare e
potenziare le reti di relazioni sociali ed economiche “alternative” già
presenti sul territorio. Per questo sono state attivate forme di concertazione
tra istituzioni e società civile per lo sviluppo locale, e sono stati creati
dei tavoli partecipativi i cui temi affrontati sono la realizzazione della
guida “Fai la cosa giusta - Roma” (a cui il comune ha contribuito con
l’acquisto preventivo di alcune migliaia di copie); la creazione di momenti di
incontro e discussione tra i vari soggetti che lavorano nell’ambito delle economie
alternative (Fiera dell’Altraeconomia); l’attivazione di progetti pilota
come la “Cittadella dell’Altra Economia” all’ex Mattatoio del Testaccio.
Anche se la realtà di Roma rappresenta
al momento l’esperienza più strutturata di dialogo tra movimenti sociali e
istituzioni locali su questo tema, si sta diffondendo all’interno della Rete la
consapevolezza del valore strategico rivestito dall’attivazione di forme di
cooperazione tra i soggetti dell’economia solidale e gli enti locali per la
creazione dei distretti territoriali di economia solidale. In questo senso si
muove la collaborazione attivata tra l’Associazione Rete dei Nuovi Municipi e
la Rete delle Economie Solidali. Essa è mirata alla sperimentazione di sistemi
economici a base territoriale, promossi e sostenuti dagli enti locali, che
permettano il coinvolgimento di operatori economici e realtà della società
civile motivati da finalità diverse, ma capaci di condividere e perseguire in
maniera coordinata e sinergica i principi e le finalità dello sviluppo locale.
L’attivazione dei distretti può quindi rappresentare un’occasione importante in
cui gli obiettivi della Rete delle Economie Solidali (diffondere la cultura del
consumo critico, sostenere i piccoli produttori locali, praticare stili di vita
sostenibili, ecc.) e quelli degli enti locali (costruire nuove forme di
democrazia partecipativa con le varie realtà che operano e vivono nei propri
territori) si incontrano e si rafforzano reciprocamente nella sperimentazione e
diffusione delle pratiche di sviluppo socio-economico autosostenibile.
Le reti e i distretti di economia solidale, a pochi
anni dalla loro formazione nel nostro paese, si trovano attualmente in una fase
di consolidamento ed espansione, acquisendo sempre maggiore consistenza e visibilità
sul territorio, grazie alla forte trama di relazioni che riescono a costruire a
scala locale, lo scambio di saperi, informazioni ed esperienze a livello
nazionale e internazionale, e il nuovo interesse mostrato dai media. E
mentre da un lato la Rete cresce, si diversifica e si sviluppa
qualitativamente, approfondendo ed ampliando i temi di dibattito e le occasioni
di sperimentazione di nuove pratiche, dall’altro le esperienze dei Distretti di
Economia Solidale stanno trasformando in una realtà la sperimentazione di
filiere di economia locale autosostenibile.
Un altro esempio di messa in pratica dei principi
dell’autosostenibilità è rappresentato dall’esperienza degli ecovillaggi,
realtà insediative diffuse in tutto il mondo concepite come laboratori
territoriali di sperimentazione economica e sociale di forme di vita
comunitaria ed ecologicamente orientata.
In Italia i primi villaggi ecologici nascono negli
anni ’70 in contesti rurali, per volontà di persone e gruppi che cercano di
sperimentare stili di vita alternativi: proprietà indivisa, modelli sociali
comunitari, economie non monetarie fondate sull’autosussistenza, forme di
produzione legate ai ritmi naturali, ecc. All’interno degli ecovillaggi si
cerca di mettere in pratica stili di vita rispettosi degli equilibri ecologici
e di produrre e diffondere una cultura della solidarietà e della cooperazione
sociale, resa “anacronistica” e marginale dal modello di sviluppo fondato sulla
crescita quantitativa.
Nel 1996 nasce la Rete Italiana dei Villaggi
Ecologici (RIVE), con lo scopo di mettere in relazione tra loro, e far
conoscere all’esterno, le diverse esperienze. Alla Rete appartengono realtà
molto differenziate per orientamento culturale e organizzazione interna, ma
tutte fondate su criteri di sviluppo personale, sociale, economico e culturale
sostenibile. Alcuni ecovillaggi hanno una forte impronta sociale e politica,
orientata verso l’autogestione e l’organizzazione antiautoritaria della
comunità, altre hanno caratteristiche di profonda ricerca spirituale ispirate
ai principi della new-age, o religiosa, di matrice cattolico-cristiana;
altre ancora si riconoscono nei valori del pacifismo e dell’ecologia radicale.
La RIVE promuove e sostiene iniziative e pratiche che si muovono nella
direzione del bioregionalismo, della tutela della biodiversità, dell’economia solidale e del boicottaggio
delle multinazionali del transgenico, secondo un orientamento culturale che
considera lo sviluppo delle esperienze comunitarie profondamente legato alla
qualità del contesto sociale ed ecologico dell'ambiente di vita. A tale scopo
promuove e partecipa ad iniziative e seminari educativi e formativi e a
progetti di sperimentazione sociale che prevedono o meno il coinvolgimento
delle istituzioni.
La RIVE aderisce a sua volta al Global ecovillage
network (Gen), l'organizzazione non governativa riconosciuta dall'Onu che
coordina 15 mila ecovillaggi, dall'Africa al Sudamerica, appoggiando anche
progetti di sviluppo.
Altri ecovillaggi fanno riferimento al circuito del
CIR (Comunicazioni e Informazioni Rurali), movimento sociale e giornale
autoprodotto nato nel ‘99. Il CIR rivendica il valore dell’agricoltura come
forma di economia sostenibile e l’importanza di essere “contadini per scelta”.
Inoltre, mette in relazione realtà individuali, familiari e comunitarie
provenienti da tutta Italia, collegate da una rete di scambi e di mutuo
appoggio. Il giornale si propone come periodico di aggiornamento del “popolo
contadino ed artigiano organizzato in una rete comunitaria, ed uno strumento
per facilitare lo scambio, il dono ed infine la vendita delle eccedenze di
ciascun aderente, individuo o gruppo”.
4. Dalle innovazioni praticate ai laboratori
territoriali…
L’insieme di queste pratiche (che vanno dal singolo operatore
biologico alla biofattoria didattica, dalla rete delle economie solidali agli
ecovillaggi, dai bilanci partecipativi ai forum territoriali, dalla costruzione
di nuovi indicatori di lettura del territorio all’apprendimento mutuo tra
luoghi lontani realizzato tramite esperienze di cooperazione decentrata)
costituiscono un tessuto di fermenti che tendono all’innovazione in ambito
politico, economico e socioculturale. Seppur minute, tali pratiche non sono per
questo meno incisive in un’ottica imperniata sulla costruzione di strategie
lillipuziane; pertanto, ad esse si può pensare di fare riferimento per la
costruzione di progetti e sperimentazioni di forme di sviluppo locale
autosostenibile.
In Toscana in particolare, dove si registra la
presenza di una forte cultura dell’associazionismo e la permanenza di strutture
capillari di valore politico e sociale attive sul territorio, si può immaginare
la costruzione di scenari di sviluppo capaci di potenziare le realtà esistenti,
ponendosi come ‘catalizzatori’ di ‘nuovo futuro’, ovvero attivando una sorta di
‘processo chimico’ che non costituisce lo stimolo iniziale o la partenza di un
percorso creativo ex-nihilo, ma interviene a potenziare creatività che
già si esprimono (con maggiore o minore visibilità) sul territorio.
Ad esempio, si può pensare all’attivazione di un
processo di inclusione e ‘recupero di senso’ della rete diffusa sul territorio
costituita dai circoli del sindacalismo di base, da quelli MCL e – soprattutto
- da quelli Arci. Quest’ ultima, in particolare, può essere pensata come sistema territoriale già radicato nel territorio, che
(pur nelle peculiarità delle relazioni stabilite localmente da ogni circolo), mantiene un forte
riferimento unitario allo statuto di un’associazione che ritiene la partecipazione
dei cittadini alla vita civile uno dei punti qualificanti della sua ‘missione’.
La connessione tra il concetto di “Nuovo Municipio” e le reti autorganizzate
già attive sul territorio può trovare nell’associazionismo un luogo di
convergenza e arricchimento di pratiche ad oggi ancora frammentarie e non
sempre collegate. Del resto, il concetto allargato di cittadinanza è
strettamente connesso al tema dei diritti, e questo assume un senso solo quando
l’enunciazione dei principi di solidarietà ed equità sa intrecciarsi con
pratiche sociali concrete e in continua evoluzione, che trasformino un diritto,
sancito da una norma, in ‘qualcosa di vivo’. Paradossalmente, spesso si possono
avere diritti significativi che entrano nel senso comune senza che nessuna
legge li prescriva, mentre è assai più difficile l’opposto. Molte delle
pratiche esaminate dalla nostra ricerca presentano proprio questo carattere
‘sostantivo’ nel promuovere diritti, attraverso il rafforzamento dei legami
sociali e lo sviluppo della creatività collettiva.
Il coinvolgimento dei circoli Arci – come delle
altre reti dell’associazionismo (di base, informale e formalizzato) – può
permettere di trasformare in atti le intuizioni generali elaborate a livello
‘centrale’ anche in relazione con reti più vaste di soggetti, come appunto la
Rete del Nuovo Municipio, che potrebbe svolgere un ruolo di regia intorno a
finalità condivise da circoli, istituzioni pubbliche, associazionismo, mondo
della ricerca e saperi territoriali diffusi.
Proprio da questo parte un’ipotesi progettuale
coerente con quanto rilevato in questo breve excursus (e che sarà
ulteriormente approfondito ed ampliato nel corso della ricerca). Ovvero quella
di costruire dei laboratori
territoriali sperimentali che, oltre ad essere
definiti geograficamente, abbiano uno o più
riferimenti tematici nodali intorno a cui integrare le varie pratiche
già attive sul territorio: cooperazione internazionale, produzione sostenibile
e consumo (critico, equo e solidale, prodotti locali), valorizzazione dei
migranti, dell’infanzia (attività extrascolastiche tipo ludoteche,
progettazione partecipata, ricostruzione di memorie collettive, giardini
autogestiti, percorsi protetti), e di altri gruppi sociali tradizionalmente
esclusi dai processi decisionali.
In questa ‘composizione finalizzata’ di temi e
pratiche, sarà importante non limitarsi ad approcci ‘specifici’, ma definire
strategie di intervento coordinate capaci di influire sullo stato di benessere
e le capacità di inclusione di un'intera comunità. Ed è proprio qui il punto
chiave. In genere, infatti, molti degli ambiti di riflessione sopra richiamati
vengono affrontati come problematiche separate, e il taglio dato alla difesa
dei diritti e dei bisogni può tendere a scivolare verso accezioni di tipo
corporativo. Possono invece utilmente diventare ‘nodi di senso’,ovvero punti
critici di analisi e intervento che investono un territorio in tutti i suoi
aspetti (linguaggi, memoria, urbanistica, contraddizioni).
A volte affrontare il progetto di un territorio nel
suo insieme può risultare ‘generico e dispersivo’. Pertanto, partire
dall’esame, dalla valorizzazione e dall’interconnessione delle pratiche
territoriali può costituire un saldo e significativo punto di partenza per la
costruzione di un ‘progetto di futuro’ centrato sul concetto di
autosostenibilità
Ricerca nazionale
“Sviluppo di Comunità e partecipazione”
Responsabile scientifico nazionale: Ivano Spano (Università di
Padova)
Documento di lavoro:
Per un futuro autosostenibile dei luoghi: cantieri
in corso
(Terra
Futura, Firenze 2 aprile 2004)
Esempi di schede di censimento
Elenco delle
pratiche analizzate:
1) Grottammare partecipativa
2) La parola ai cittadini (Vicenza)
3) Atlante del patrimonio
del circondario Empolese Valdelsa
4) Attivazione del Polo Universitario
Empolese
5) Banca del Tempo di Guspini
6) Agenda 21 Locale – Provincia di Ferrara
7) Biofattoria ‘La Colombaia’ (Fauglia)
8) Forum per Firenze
9) Ecovillaggio ‘La Comune di Bagnaia’ (Sovicille)
10) Bilancio Partecipativo di Pieve Emanuele
11) Agenda 21 Locale Empoli
12) Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale di
Prato
13) Intervista a Eros Cruccolini (Quartiere 4 – Firenze)
14) Mappa dei soggetti dell’indirizzario Toscano
15)
Schema grafico delle azioni del ‘sistema
territoriale’ dei circoli Arci del nodo Toscano
16) Schema
grafico dell’attivazione di un processo partecipativo nell’Empolese Valdelsa
Curatori delle schede: